Credito. Ma a qualcuno interessava il destino e la fortuna delle banche?

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Va dato atto a Cesare Geronzi di un coraggio raro fra i suoi pari, per avere raccontato i fatti dell’Italia finanziaria degli ultimi 35 anni, non a un interlocutore «morbido», ma a quel Massimo Mucchetti che, insieme a pochi altri, lo tallonò anche aspramente quando era fra i potenti d’Italia. Questo libro («Confiteor», Feltrinelli) è un’intervista, ma inevitabilmente anche una narrazione: la Versione di Cesare senza spigoli, avvolgente come una melassa, cui talvolta si potrebbe solo rispondere: «Ma come fa a dire ciò?».
La versione di Cesare
Tale esclamazione, d’altronde, una volta che Mucchetti abbia svolto le proprie controdeduzioni, spetta solo al lettore, al quale difatti, in più punti, essa esce d’impeto. Avviene quando Geronzi si dipinge come il gran salvatore del nostro sistema bancario, mandatario informale della Banca d’Italia di cui, semel sacerdos semper sacerdos, ancora porta umile il saio. O quando nega i vantaggi di cui la sua Banca di Roma godette nella lunga fase in cui fu la pupilla di Antonio Fazio, allora governatore di Banca d’Italia. Questi stoppò, adducendo soli motivi procedurali, le Opa su Banca di Roma e Comit, rispettivamente di San Paolo e del Credito Italiano (banche ben gestite e solide); salvò così insieme la poltrona di Geronzi, con il quale intratteneva rapporti inadatti al proprio ruolo istituzionale, e la centralità di Mediobanca nel sistema. Il prezzo lo pagò l’autorevolezza dell’istituzione.
Le domande giustamente non toccano le vicende penali in cui Geronzi è ancora impigliato: se l’imputato può mentire davanti al giudice, perché dovrebbe dir la verità a un giornalista? All’inizio del libro Mucchetti, rifacendosi all’interpretazione foscoliana su Niccolò Machiavelli, afferma di voler mostrare «di che lagrime grondi, e di che sangue» lo scettro del Re ed egli, temprandolo, davvero «gli allor ne sfronda». Il quadro che ne esce è infatti, prevedibilmente sconfortante: il potere non è qui mezzo per realizzare dati fini, la battaglia è fine a se stessa. Ripercorriamo così trame degne del duca Valentino, su nomine ai vertici, quote azionarie, possibili fusioni fra aziende; quasi nulla ci dice Geronzi sulle strategie di queste, su cosa avrebbero dovuto fare o non fare esse, che di tali borgesche trame sono incolpevole oggetto. Dentro le imprese però ci sono le persone, gli impianti, la storia e la vita tutta, insomma, di un grande Paese quale l’Italia pervicace si ostina ad essere; nonostante il disinteresse delle banche per le sorti delle imprese, anche grandi, da molti teorizzata sulla scorta di una teoria (attribuita a Enrico Cuccia) per cui le imprese non bisogna conoscerle, per non innamorarsene. Eppure così fanno quegli strampalati dei tedeschi, che di grandi imprese ne hanno tante mentre da noi, grazie a tale brillante teoria, esse sono sempre meno.
Potere e gestione
Si aprono squarci illuminanti sul potere italiano: Fabrizio Palenzona, vicepresidente di Unicredit (e presidente di molto altro), così apostrofa Geronzi dopo che le Generali hanno rinviato una decisione sulle case popolari cui egli molto teneva: «Caro Cesare, oggi ti parla il 4% delle Generali… questo fondo per l’housing sociale è il pegno della pacificazione finalmente raggiunta tra le banche, le fondazioni e il ministro Tremonti… Non è possibile che le Generali facciano saltare la pacificazione del sistema». Questo linguaggio, che poco sa di aziendale e molto (a esser buoni) di curiale, rende icasticamente i nostri mali, dei quali la «pacificazione» fra Tremonti e Palenzona, con relative (e opache) condizioni, fa forse parte.
Oltre a che cosa c’è nel libro, è interessante notare che cosa manca. Dato il tono dell’insieme, ci stava bene la storia della guerra per banche fra Cuccia e Giovanni Bazoli, alla fine della quale il secondo non solo respinse le mire del primo sull’agglomerato che poi divenne Banca Intesa, ma lo sconfisse annettendosi la Comit che questi vedeva come la luce dei suoi occhi; e tanto affetto l’ha condannata — accade per i figli troppo amati — all’irrilevanza prima e all’estinzione poi. Forse Geronzi non vuole parere irriverente al mito di Cuccia che ancora da noi si venera.
La chiave di lettura di una carriera bancaria è però nello stile di gestione, sul quale vorremmo sapere qualcosa in più. Come mai nessuna figura «forte» convive a lungo con lui? Pensiamo a Capaldo, Salvatori, Arpe, Nagel, Perissinotto, Pellicioli eccetera. O li ha «dimessi», o sono scappati, o l’hanno «dimesso»; strano che fossero tutti incompatibili con un tale impasto di bonomia e autorevolezza. A proposito della quale, resta inspiegata l’evidente incoerenza fra due affermazioni di Geronzi: quella per cui tutte le decisioni operative sono affidate alle competenti strutture bancarie su cui egli non influisce, e quella per cui non ha bisogno di poteri, gli basta un telefono. Quale delle due è vera?
Nell’ovvio rispetto delle forme, e in un Paese in cui il coraggio non è virtù abbondante, buona la seconda.

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