È normale per una Fondazione, ente sulla carta senza scopo di lucro, ritrovarsi con centinaia di milioni di debiti sul groppone? La risposta è ovvia: no. Ovunque, ma non a Siena. Pur di mantenere la maggioranza, anche se non più assoluta, del Monte dei Paschi, non hanno esitato a indebitarsi. Fino al collo. Per partecipare all’aumento di capitale da 2,1 miliardi che ha tenuto a galla per un po’ la banca, la Fondazione ha dovuto chiedere a 11 banche 600 milioni di euro. Chi mai avrebbe potuto rifiutarle un finanziamento? Il pacchetto del 34 per cento di azioni del Monte che l’ente ha ancora in portafoglio copre ampiamente i debiti. Anche se questa singolare operazione ha soltanto rinviato l’inevitabile resa dei conti. E alla fine la toppa si è rivelata anche peggiore del buco.
Il bilancio 2011 della Fondazione si è chiuso con un disavanzo di 331 milioni, da sommare ai meno 128 milioni del 2010: e tutto a causa della svalutazione di quei titoli del Monte che i vertici dell’ente si sono ostinati a difendere. Svenandosi. I generosi contributi destinati tradizionalmente al territorio si sono quasi dimezzati, da 232 a 126 milioni. Una catastrofe, per una Fondazione che in dieci anni aveva distribuito una media di 4 mila euro per ognuno dei 270 mila abitanti della Provincia. Quest’anno, poi, le cose certo non miglioreranno: dalla banca non arriverà neanche un euro di dividendi.
Qualcuno argomenterà che nessuno poteva prevedere che il Monte finisse al centro di un imbarazzante caso che sta assumendo proporzioni internazionali. E non è una spiegazione tanto assurda, se si pensa alla prospettiva provinciale da cui in Fondazione si è sempre guardato alle vicende della banca. Anche se i risultati dell’ispezione della Banca d’Italia qualche dubbio, e anche piuttosto serio, dovevano farlo venire. Certo, la faccenda dei derivati era stata ben nascosta, se i magistrati indagano anche sull’ipotesi di false comunicazioni agli organi di vigilanza. Ma a chi ritiene se stesso in grado di amministrare il pacchetto di maggioranza della terza banca italiana, che ha appena fatto un’operazione finanziariamente spericolata come l’acquisizione per cassa dell’Antonveneta, le perplessità emerse nel corso dell’ispezione dovevano per forza mettere la pulce nell’orecchio.
E invece, niente. Di certo comunque a Siena molte cose sono destinate a cambiare. Non soltanto perché la quota della Fondazione, così accanitamente difesa a forza di debiti, fatalmente si ridurrà e di molto. Fra qualche mese, la prossima estate, scadono gli amministratori. E se alle elezioni comunali vincerà ancora Franco Ceccuzzi, disarcionato sei mesi fa in seguito a manovre interne al suo partito, si preannuncia un azzeramento pressoché totale. Le poltrone della «deputazione generale» sono 16. Otto le sceglie il Comune, cinque la Provincia e una la Regione. Le rimanenti due spettano alla Curia e all’Università. Questa governance ha garantito al centrosinistra locale per anni il controllo dell’ente e perciò della banca, con un patto che da cinque anni assegna la presidenza della fondazione, come tante volte abbiamo ricordato in questi giorni, alla componente della ex Margherita nella persona di Gabriello Mancini, fedelissimo del presidente del consiglio regionale toscano Alberto Monaci, ex dipendente del Monte ed ex deputato Dc.
Degli otto attuali componenti di nomina locale, uno solo è stato designato dall’amministrazione targata Ceccuzzi, al posto di un dimissionario. Si tratta di Alessandra De Marco, dirigente di Palazzo Chigi priva di rapporti con gli ambienti senesi. Una specie di prova generale? Di sicuro Ceccuzzi ha già fatto sapere che non riterrà uno scandalo la sostituzione di Mancini con un «non senese». Applicando così anche alla Fondazione lo schema a lui caro che ha portato Alessandro Profumo alla presidenza della banca. Una operazione contrastatissima da Monaci, e che con ogni probabilità è stato il motivo principale della caduta della giunta comunale, dopo il voto contrario al bilancio proprio della componente del Pd che fa riferimento al presidente del consiglio regionale, insieme ad altre concause. Come per esempio la sostituzione, espressamente richiesta da Ceccuzzi alla Regione, del direttore generale dell’azienda ospedaliera di Siena. Lì dove è impiegata l’influente moglie di Monaci, Anna Gioia, agguerrita consigliere comunale della suddetta corrente Pd che ha bocciato il bilancio. Altro capitolo di un’assurda guerra locale intorno alla quale incredibilmente si giocano i destini di una delle più importanti banche italiane.
E che si combatte senza esclusione di colpi. Anche quelli sotto la cintura. Per avere un’idea del livello dello scontro, valga l’episodio di un ricorso legale sulle primarie del Partito democratico in vista delle elezioni senesi, vinte da Ceccuzzi contro il candidato vendoliano. A presentarlo, pur senza fortuna, è stato il giovane vicepresidente della Provincia di Siena, Alessandro Pinciani, già coordinatore comunale della Margherita. Incidentalmente, figlio di Anna Gioia e del suo primo marito Sergio Pinciani.