Gelato: un business da 4,5 mi­liardi di euro

gelateriaNella splendida Five Years , pubblicata nel 1972, David Bowie immaginava la reazione degli abitanti di una cittadina inglese (non nominata ma si tratta di Aylesbury, ndr ) all’annuncio del­la radio che il mondo sarebbe finito tra cinque anni. Il prota­gonista osserva la sua bella che, ignara di tutto, ride e scherza con le amiche in un «ice cream parlour, drinking milk shakes cold and long ». Ecco, possiamo essere sicuri che se il Duca Bianco, uomo di gran classe, avesse scritto la stessa canzone 30 o 40 anni dopo, avrebbe eliminato in un secondo il bana­le milk shake per sostituirlo con un gelato artigianale, consu­mato in una gelateria all’italiana, con la metrica e la rima giu­stamente sacrificate sull’altare del gusto e della qualità.

Sono i numeri snocciolati dagli operatori del settore a parlare da soli e a raccontare questa febbre del gelato: nel 2017, si contavano 100 mila gelaterie in 76 Paesi per vendite che avevano raggiun­to i 15 miliardi di euro e una crescita del fatturato globale nei quattro anni precedenti, si era attestata su una media del 4% e che in aree come Centro e Sud America e Medio Oriente, tra il 2017 e il 2018, è stata rispettivamente dell’11 e dell’8,1%. Se qui il mercato è saturo, nel resto del mondo è ancora da creare: in Italia ci sono 39 mila gelaterie, negli Usa solo 950. I margini di crescita del gelato italiano nel mondo sono enormi.

Le ragioni di questo successo sono sorprendenti e vanno ri­cercate in una capacità impressionante delle aziende della fi­liera di fare sistema e di muoversi quasi come un corpo unico, come spiega a Business People Roberto Leardini, presidente di Aiipa, l’Associazione italiana industrie prodotti alimentari. «Il gelato si è diffuso grazie all’emigrazione dei gelatieri italia­ni. Il processo è cominciato a partire dalla fine dell’800, ma il vero e proprio boom si è avuto a partire dagli anni 90, soprat­tutto grazie allo sviluppo delle aziende della filiera che sono cresciute, si sono strutturate, hanno aperto delle sedi, com­merciali e di produzione, anche all’estero. Si tratta di una fi­liera industriale tipicamente italiana, costituita da imprese che producono macchinari per gelato, ma anche attrezzature, ar­redamenti, vetrine e ingredienti».

La filiera vale complessivamente 4,5 mi­liardi di euro, 1,6 dei quali sono appan­naggio delle 45 imprese che producono ingredienti e semilavorati. L’altro acroni­mo da ricordare è Acomag, l’Associazio­ne nazionale costruttori macchine, at­trezzature e arredamenti per gelato. Anche in questo settore sventola il tricolore. Le 13 imprese italiane leader nella produ­zione delle macchine per gelato controllano il 90% del merca­to mondiale e hanno un fatturato di 229 milioni di euro. Non c’è partita nemmeno nel campo delle vetrine refrigerate, sal­damente in mano a 11 società tricolori la cui produzione vale 252 milioni di euro.

E poi naturalmente ci sono quelli che il gelato lo fanno, il cui status ha cominciato a raggiungere quello delle star dei fornel­li: «Quello che abbiamo visto in questi anni è anche una cre­scita professionale dei gelatieri. Se i pasticceri, per non parla­re degli chef, erano già delle figure piuttosto evolute, adesso anche loro hanno un altro prestigio nella percezione del pub­blico: vietato dire gelataio, ma si parla di gelatiere o mae­stro gelatiere», spiega Flavia Morelli, Group Brand Manager Food&Beverage di Italian Exibition Group (Ieg), player di pri­mo livello nel settore manifestazioni fieristiche, che ogni anno organizza il Sigep di Rimini. Con i suoi 129 mila metri quadri di spazi espositivi, metà dei quali dedicati a tutto ciò che oc­corre alla produzione e alla vendita del gelato artigianale, dalle macchine alle coppette passando per arredi e vetrine refrigerate, questo salone internazionale del dolce fuori casa è diventato il principale appuntamento mondiale per tutti gli at­tori della filiera. All’ultima edizione, la numero 40, hanno par­tecipato 1.250 espositori, 32.848 buyer da 185 Paesi e oltre 200 mila visitatori. Il Sigep, che è diventato di fatto un osservato­rio sul business del gelato, ha contribuito a dare visibilità e nuovi sbocchi commerciali ai tanti attori della filiera e ad al­zare il livello della qualità offerta complessiva, cresciuta paral­lelamente alla domanda di gelato. «Oggi abbiamo macchine che permettono di realizzare un gelato con delle caratteristi­che migliori e degli ingredienti che permettono di produrre un gelato italiano di eccellente qualità in qualsiasi parte del Mondo», ragiona ancora Leardini.

Si investe molto nella ricer­ca e anche nella formazione: sono diverse le aziende di que­sto settore che hanno scuole interne il cui scopo è sì vendere i propri prodotti, che siano macchine per il gelato o semilavo­rati non importa, ma soprattutto sfornare dei gelatieri che sia­no in grado di utilizzare al meglio quella produzione. Perché il ruolo di questi ultimi resta centrale ed è ciò che distingue un prodotto industriale da uno artigianale.

«La tecnologia», aggiunge la manager di Ieg, «negli ulti­mi anni è evoluta tantissimo, ma poi quello che fa la diffe­renza è l’ingrediente che il gelatiere sceglie, è la sua cre­atività, sono i nuovi gusti che inventa, le materie prime che utilizza, spesso a chilometro zero e provenienti dal suo ter­ritorio. E la ricerca che sta dietro a ogni creazione non fini­sce mai». Nel gelato si incontrano e si combinano alcune delle eccellenze italiane per antonomasia: l’estro e la ma­estria degli artigiani, un territorio ricco di prodotti unici e molto caratterizzati ma anche una tradizione universalmen­te apprezzata nel campo delle macchine industriali. Che il ri­sultato sia stato esplosivo non dovrebbe sorprendere troppo. Anche il quadro più idilliaco ha comunque qualche ombra. «Nel nostro ordinamento», racconta Roberto Lobrano, gela­tiere e fondatore di Ice Rock Consulting, «il mestiere di gela­tiere artigiano non è nemmeno considerato, non esiste, né c’è una legge che stabilisca cosa sia il gelato artigianale o un’istitu­zione che faccia formazione. Qualsiasi azienda si può aprire la sua scuola. Il nostro è un mondo un po’ selvaggio, in cui ognu­no fa quello che vuole». E anche questa confusione, a pensar­ci bene, è molto italiana.

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