Il Tfr in busta non conviene
richiesta Firr

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Avere oggi poche decine di euro in più, rinunciando però a una quota rilevante del tesoretto per la vecchiaia. Sono i conti da fare per decidere se conviene chiedere di vedersi accreditare il Tfr in busta paga, che si chiama Tir (Trattamento integrativo della retribuzione). L’operazione, prevista dalla legge di Stabilità 2015 per sostenere il potere d’acquisto e i consumi, si è aperta ieri per concludersi il 30 giugno 2018.
Se per i quaranta mesi previsti richiederà in busta paga la liquidazione (pari al 6,91% della retribuzione lorda), un trentenne con un reddito attuale di 13mila euro netti l’anno incasserà 2.800 euro netti, cioè settanta euro al mese. In cambio, però, rinuncerà a 4.288 euro al momento della pensione, vale a dire che riceverà il 35% in meno rispetto a quanto otterrebbe lasciandola in azienda, dove si rivaluta con un tasso dell’1,5%, più il 75% dell’inflazione. Mano a mano che aumenta l’età, la perdita per chi incasserà il Tfr in busta paga si ridurrà. Così, per esempio, un cinquantenne con un reddito attuale netto di 26mila euro, per i quaranta mesi previsti riceverà 5.480 euro netti, vale a dire 137 euro il mese. In cambio, però, il taglio al Tfr sarà del 25%, 7.275 euro in meno.
Ipotesi
Le simulazioni realizzate da Progetica, società di consulenza in pianificazione finanziaria e previdenziale confermano che la scelta d’incassare il Tfr in busta paga andrà presa davvero con grande attenzione, e solo quando non se ne potrà fare a meno per pressanti esigenze immediate. Per giunta è irreversibile, non si potrà quindi cambiare idea durante il periodo previsto; mentre, ovviamente, si potrà sempre richiederlo da qui a giugno 2018.
Oltre a essere penalizzante dal punto di vista fiscale, quest’opzione inciderà in maniera pesante sul tesoretto previdenziale. Sia per chi ha lasciato la liquidazione presso il datore di lavoro sia per chi, invece, ha aderito ai fondi pensione (vedi altro articolo in questa pagina).
«Le simulazioni rispondono alle principali domande che si pongono i lavoratori dipendenti di fronte alle possibili alternative — spiega Andrea Carbone, partner di Progetica —. E cioè metterlo in busta paga, mantenerlo in azienda, come oggi, oppure destinarlo ai fondi pensione. I redditi ipotizzati sono medio-bassi, perché probabilmente saranno quelli maggiormente interessati all’iniziativa. Da un punto di vista finanziario conviene sempre mantenere il Tfr in azienda, grazie a un regime fiscale più favorevole e alla rivalutazione dello stesso Tfr nel corso del tempo».
Penalizzazioni
L’opzione del Tfr in busta paga è decisamente penalizzante dal punto di vista fiscale; le somme ricevute saranno soggette all’aliquota progressiva Irpef. L’operazione è neutra solo per i lavoratori con una retribuzione sino a 15mila euro l’anno, cui si applica un’aliquota marginale del 23%; la stessa, cioè, che per questo scaglione di reddito è prevista con la tassazione separata (sulla media degli ultimi cinque anni) sul Tfr che si ottiene al termine dell’attività.
In base a un’analisi della Fondazione studi consulenti del lavoro, per un lavoratore con una retribuzione lorda di 25mila euro, il Tfr annuo è pari a 1.727 euro. Incassandolo in busta paga si è soggetti a un’aliquota del 27%, cui corrisponde un netto di 1.261 euro l’anno, 105 euro in più ogni mese. Per il Tfr assoggettato a tassazione separata, il prelievo fiscale è di 50 euro in meno l’anno e 166,67 euro per l’intero periodo (primo marzo 2015-30 giugno 2018).
Salendo negli scaglioni di reddito, le differenze diventano sempre più rilevanti perché sale l’aliquota progressiva. Così, per esempio, per una retribuzione di 50mila euro, il Tfr lordo ammonta a 3.454 euro che, a fronte di un’aliquota del 38%, diventano 2.141 al netto delle tasse, 178 il mese. Incassandolo al momento della pensione, le tasse sono più basse per 307 euro all’anno, cioè 1.022 per i quaranta mesi dell’operazione Tfr in busta paga.
«Nella quasi totalità dei casi, la scelta d’incassare il Tfr in busta paga è penalizzante — spiega Giuseppe Buscema, esperto della Fondazione studi consulenti del lavoro — anche perché nella tassazione ordinaria si applicano le addizionali comunali e regionali. Inoltre avrà effetti negativi anche sul reddito ai fini dell’Isee (l’Indicatore della situazione economica equivalente), utilizzato dall’Agenzia delle Entrate per valutare la ricchezza effettiva dei contribuenti ai fini di numerose prestazioni sociali, fra cui le tasse universitarie».

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