Siamo sotto l’1 per cento nel Venture Capital
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Fatto 100 il prodotto interno lordo italiano, appena 1 viene investito sotto forma di capitale di rischio per lanciare idee potenzialmente innovative in grado di creare posti di  lavoro. È il mercato dei venture capital in Italia. Ultimo in Europa, con la Grecia.

Al Corriere  della Sera il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha rilanciato un  cavallo di battaglia rispolverato a fasi alterne dalla politica: tentare di convogliare la grande massa di risparmio privato delle famiglie  (otto mila miliardi di euro, circa quattro volte l’ammontare del nostro debito pubblico) per indirizzarlo ininvestimenti in imprese.

Lo strumento sarebbe quello della tassazione zero, un’aliquota inesistente per chi destina una parte del proprio tesoretto per indirizzarla ad imprese e startup. Al momento sembra quasi una corsa ad ostacoli. Il potere autorizzatorio della Banca d’Italia, in primis.

Racconta Andrea Di Camillo, venture capitalist di lungo corso, un sodalizio imperituro con Elserino Maria Piol (con il quale ha lanciato Yoox), chebisognerebbe lavorare su un sistema di regole più aperto che non accomuni cose infinitamente diverse.

Il venture capital, ad esempio, non ha la stessa logica del fondo di private equity che entra nel capitale di una società per garantire un rendimento ai suoi investitori e poi ne esce dopo 3-5 anni. Il venture capitalist scommette invece su idee innovative, frammenta gli investimenti in decine di startup finanziandole nella prima fase con qualche milione di euro (è il caso della P101, il portafoglio di startup riconducibile a Di Camillo).

Poi punta convintamente su un paio di realtà se il modello di business si mostra funzionante.  Ecco spesso l’authority di via Nazionale impone un protocollo stringente che non ne rende agevole l’istituzione. A cascata ne perde il sistema-Paese.

Gli investitori istituzionali (le casse previdenziali, le fondazioni bancarie, le assicurazioni) si tengono ben alla larga. Nelle loro strategie preferiscono affidarsi alle società di gestione del risparmio che diversificano il rischio comprando — oltre che titoli di Stato, finanziando il nostro debito — sull’azionario hi-tech. Cioè comprando i colossi Usa come Google, Facebook, Apple, Twitter che anni fa era solo startup e ora sono i big di Internet.

 

Sostiene Di Camillo — citando un recente articolo uscito sull’Economist che raccontava l’impatto di Spotify per una città come Stoccolma — che le startup siano acceleratori di innovazione. Perché portano alla creazione di posti lavoro che altrimenti finirebbero altrove. È il tema della mobilità imprenditoriale in un’economia globale e globalizzata.

Chi smette di investire sulle idee ad alto contenuto di innovazione perde il treno della competitività. Mentre gli steccati nazionali — soprattutto per i professionisti dell’hi-tech — non reggono più perché la lingua inglese è ormai di ordinanza e gli stipendi sono infinitamente più allettanti dove il mercato dei venture capital è più fiorente. Con inevitabile perdita di capitale umano.

 

Sono circa  90 i miliardi di dollari. È il valore dell’innovazione negli Stati Uniti, best practice mondiale.  L’83% della ricerca e sviluppo Usa proviene da società nate e cresciute  grazie ai venture capital. Si tratta del Paese dove questa particolare forma di investimento è più sviluppata rappresentando il 21% della capitalizzazione totale di Borsa.

In Italia siamo ancora agli albori, ma qualcosa anche da noi si sta muovendo se a settembre 2014 Oakley Capital ha rilevato per 100 milioni di euro il 75% della startup Facile.it, noto portale per la comparazione di tariffe assicurative, conti correnti, tariffe telefoniche.

Qualche mese più tardi il colosso tedesco Rocket ha acquistato la totalità della startup italiana PizzaBo per 55 milioni di euro. Segnali incoraggianti di creazione di valore. Nonostante il valore esiguo degli investimenti.

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