La verità di Geronzi: ecco chi e perché mi ha mandato via dalle Generali

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Le manovre segrete per costringere Cesare Geronzi a lasciare le Generali e porre fine a trent’anni di potere del banchiere capitolino. Iniziati nel 1984 con una telefonata di Giulio Andreotti che gli chiede, pur romanista, di sponsorizzare la Lazio. Gli anni Novanta a fianco di Enrico Cuccia e Vincenzo Maranghi contro tutti. L’amicizia con Massimo D’Alema che suggerisce il nome di Mario Draghi per la guida di Mediobanca nell’ultimo incontro con il grande banchiere d’affari a Palazzo Chigi. Le condizioni di Cuccia per portare Mediaset in Borsa superando il conflitto d’interessi, che Silvio Berlusconi respinge. I rapporti con Antonio Fazio e l’ascesa in Mediobanca, primo sostenitore Giovanni Agnelli. Le trattative prima con Giovanni Bazoli e poi con Alessandro Profumo per condurre Capitalia nel porto sicuro di un grande istituto del Nord, ispirate dalla Banca d’Italia di Draghi. La beneficenza agli enti cattolici e il Cardinale con i simboli massonici sulla scrivania. E infine gli scandali Cirio e Parmalat.
Cento ore di colloqui, 27 incontri, 362 pagine di intervista. Cesare Geronzi, banchiere che ha contribuito a scrivere la storia della finanza italiana per oltre trent’anni, si «apre» a Massimo Mucchetti, vicedirettore del Corriere della Sera. Il volume, edito da Feltrinelli e da domani sugli scaffali delle librerie, ha un titolo dai rimandi misteriosi, ma che «racconta» molto: «Confiteor». Confesso? Geronzi parla, e a lungo, ma non è per nulla un «banchiere pentito». Chiarisce subito: «Confiteor, ma anche et ego dimitto debitoribus», cioè «perdono» i miei debitori, «che nei miei confronti non sono pochi per i comportamenti tenuti e le preconcette ostilità».
Più che una lunga serie di domande e risposte, il libro è in realtà un confronto serrato fra uno dei maggiori protagonisti della nostra finanza, uso all’esercizio del potere, già presidente di Capitalia, Mediobanca, Assicurazioni Generali e oggi alla guida della Fondazione costituita dalla compagnia triestina, e un giornalista che lo ha più volte criticato. Ma che ora diventa la «controparte» in una sorta di duello costruito attraverso un complesso scambio di interrogativi, repliche, interpretazioni, giudizi e documenti «cruciali», come il carteggio fra Cuccia e Romano Prodi del 1993. Geronzi spiega così la scelta per il suo «colloquio più lungo»: «È una questione di credibilità».
Trent’anni di potere costruito intorno all’ideologia e alla pratica del «sistema». Che Geronzi considera «venuto meno» con la sua uscita dalle Generali. L’ultima e più evidente prova, secondo il banchiere, è il vano tentativo di convincere Giovanni Bazoli a intervenire nell’affare Fonsai in alternativa a Unipol, sostenuta da Mediobanca. In realtà il lento declino del «sistema» coincide, secondo entrambi i protagonisti del libro-confronto, con la perdita di centralità dell’istituto di Piazzetta Cuccia. Un processo che inizia nel 1993 quando il premier Carlo Azeglio Ciampi sottopone al Comitato per le privatizzazioni presieduto da Draghi la bozza del decreto che affida a Mediobanca e Imi la regia di tutte le dismissioni pubbliche. E il Comitato la boccia con voto unanime, reso quindi anche da Piergaetano Marchetti e Ariberto Mignoli, i due massimi professionisti vicini a Cuccia.
E adesso, fuori dalle stanze del potere, cosa dice Geronzi? «A 77 anni ho scoperto che la lontananza dalla funzione che dà il potere regala l’opportunità di capire e fare, con un rappresentante di quel contropotere che vuole essere la stampa, un libro sul potere come questo. La vita è strana».

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