Finora la portata dello scandalo Daihatsu aveva riguardato solo il fermo degli impianti.
Il presidente Soichiro Okudaira ha già ammesso i fatti e in una conferenza stampa nella quale non sono mancati gli inchini si è scusato per “aver tradito la fiducia dei clienti”. Congelate infatti le attività negli stabilimenti di Osaka, Shiga, Kyoto e Oita, con la conseguente necessità di risarcire fornitori e terze parti in regola sulla tabella di marcia.
E TOYOTA PAGA
Nel complesso, i quattro impianti in esame hanno prodotto oltre 920.000 veicoli nell’anno fiscale 2022 e la sospensione delle operazioni per un mese significa mettere in conto una diminuzione dell’output annua di circa 70.000 unità.
Secondo stime del settore solo il fermo potrebbe costare all’azienda (e dunque all’intero gruppo Toyota) qualcosa come 100 miliardi di yen, ovvero circa 700 milioni di dollari.
LA DECISIONE DEL GOVERNO GIAPPONESE
Ora però si muove pure l’esecutivo nipponico, non solo per ovvie questioni che incidono sulla sicurezza degli automobilisti, ma anche per dimostrare, in un anno contrassegnato dagli scandali che hanno infangato i principali marchi del Sol Levante, che si procederà senza indulgenza.
Il ministero dei Trasporti del Giappone intende fare coriandoli delle certificazioni necessarie alla produzione di tre veicoli di Daihatsu. Il ministro, Tetsuo Sato, ha dichiarato che la revoca dei certificati per la produzione riguarderà il veicolo commerciale leggero Gran Max, il Toyota TownAce e il Mazda Bongo.
Secondo quanto scrive la stampa nipponica, il dicastero dei Trasporti dovrebbe inoltre emanare in giornata un’ordinanza ai sensi della Legge sui veicoli da trasporto su strada per imporre a Daihatsu una drastica riforma della sua struttura organizzativa.
Per la verità tale mossa era già attesa a livello interno, necessaria al Gruppo Toyota per ristabilire un rapporto fiduciario con l’utenza e gli azionisti, ma se venisse imposta dall’esterno, e dunque dal governo, avrebbe ben altro peso. E ben altre conseguenze sui mercati.