Il caso del Monte dei Paschi di Siena, caduto nel bel mezzo della campagna elettorale, ha distolto completamente l’attenzione dal vero problema da cui ha origine, cioè la crisi del capitalismo finanziario, preferendosi discettare su questioni certamente connesse, ma non essenziali, e a volte marginali. Gli interni risvolti tra partiti politici, fondazioni e banche permangono certo uno degli importanti settori della democrazia italiana sui quali è comunque opportuna una rimeditazione, anche per l’inefficacia delle norme esistenti, ma non sono la vera causa dello “scandalo Monte dei Paschi”.
Sulle responsabilità civili e penali relative deve indagare la magistratura, ed è bene che il populismo sguaiato o sobriamente chic della campagna elettorale e dei media non si faccia custode non autorizzato della moralità pubblica.
Altro problema di non scarso respiro è quello delle autorità di vigilanza, dalla Banca d’Italia alla Consob, chiamate spesso a operare su campi non istituzionalmente propri, e comunque con inquadramenti normativi fragili e confusi. Che il problema dei controlli delle autorità indipendenti sia un tema certamente rilevante nell’attuale assetto delle democrazie è fuor di dubbio. Vale la pena citare, a proposito del tanto esaltato prototipo delle agenzie di controllo indipendenti, l’americana Sec, un articolo dottissimo sull’ultimo numero della Harvard Law Review, che s’intitola The SEC is not an Indipendent Agency. Il concetto stesso di indipendenza, invocato a volte anche per non affidare ulteriori poteri alla Banca Centrale Europea, necessari invece per contenere la crisi dell’euro, ha oramai assunto una dimensione tanto vaga quanto totemica. Esso è usato, ad esempio, in ogni situazione, dalle Banche centrali indipendenti alle agenzie di controllo indipendenti, fino a giungere ai cosiddetti amministratori indipendenti e ai vari comitati interni, indipendenti, a presidio della corretta gestione delle società per azioni.
di Guido Rossi Il caso dei derivati e l’ingrandimento del Monte dei Paschi di Siena con l’acquisto dell’Antonveneta, ricolmo di interrogativi, riguardano invece un ben altro e diverso tema. Si tratta infatti dell’ultimo esempio di cronaca dei fallimenti del mercato e del capitalismo finanziario, non fondamentalmente diverso da quel che è successo nei sistemi bancari e negli istituti finanziari di vari Paesi. È ormai pacifico che nella finanza globalizzata la politica ha avuto certamente le sue colpe, nel dar libero sfogo non ai mercati dell’investimento, ma a quei “teatri di enorme liquidità” che hanno creato un mercato fuori dell’economia reale, e soprattutto alimentato la convinzione che la ricchezza si costruisce sul debito e su strumenti finanziari di tipo speculativo rischiosi, come i derivati. Eppure, sono passati più di dieci anni da quando Warren Buffet pubblicamente dichiarava che: «I derivati sono armi finanziarie di distruzione di massa, portatrici di pericoli, che seppure latenti al momento, sono potenzialmente letali». Inutile dire che nell’ambiguo rapporto finanza-politica, il legislatore americano del 1999, in concomitanza con quegli europei, aveva eliminato il Glass Steagall Act del 1933 (uno dei provvedimenti legislativi presi da Roosevelt per risolvere la crisi del ’29), il quale aveva fino a quel momento impedito alle banche commerciali di operare come banche di investimento. Nessuna regolamentazione sui derivati veniva al contempo proposta. Il mito dei due settori, economico-privato e politico-pubblico è scomparso fin dalla profetica visione del 2004, di John Kenneth Galbraith (“The Economics of Innocent Fraud”).
Di fronte a questa scombinata deregolamentazione della finanza globale, è allora superfluo, inutile e volutamente deviante ricercare colpe e responsabilità di carattere generale a livello degli interventi e delle regolamentazioni solo nazionali. Queste, infatti, al momento servono solo a riparare, con l’intervento dello Stato e del denaro dei contribuenti, i danni della finanza globale e di coloro che ancora pretendono di credere alla libertà dei mercati che li induce tranquillamente invece a privatizzare i profitti e socializzare le perdite. Questo è avvenuto, da Lehman Brothers al Monte dei Paschi. Se è pur vero poi che a livello europeo il problema incomincia a essere affrontato anche in ambito parlamentare, attraverso l’elaborazione di una nuova Costituzione, chiamata “Fundamental Law”, con chiaro riferimento al lessico kelseniano, da parte di parlamentari appartenenti a gruppi diversi, l’urgenza e la vastità del problema impone a parer mio un intervento ancor più globale. Le reazioni alla crisi del ’29, tante volte a sproposito evocata in parallelo, e a quella iniziata nel 2007-2008 sono state diverse. Dopo la crisi del ’29, infatti, i vari governi nazionali attuarono misure per risolvere problemi interni, senza badare alle conseguenze negative che potevano avere all’esterno, mentre nella primavera del 2009 il G20, composto dall’Unione Europea e dai 19 Paesi più industrializzati del mondo, e che rappresenta oltre l’80% del Pil mondiale, formulò un piano globale di cooperazione internazionale, per la ripresa dell’economia. È bene ricordare anche la posizione, nell’ambito del G-20, del governatore della Banca Centrale cinese, che di recente ha sottolineato il pericolo di un eccessivo gigantismo delle banche interne, nonché la necessità di trasparenza e monitoraggio assoluto del mercato dei derivati, seguito in questo obiettivo dal presidente della China Securities Regulatory Commission.