Corte di giustizia: il modello Albania non funziona
L’esternalizzazione del problema dell’immigrazione irregolare ha fin da subito palesato numerose criticità, dalla controversa compatibilità con l’ordinamento dell'Unione Europea, alle lacune normative interne, alle diffuse perplessità in tema di diritti umani.

L’esternalizzazione del problema dell’immigrazione irregolare ha fin da subito palesato numerose criticità, dalla controversa compatibilità con l’ordinamento dell’Unione Europea, alle lacune normative interne, alle diffuse perplessità in tema di diritti umani.

La sentenza 1° agosto 2025 della Corte di giustizia in tema di protezione internazionale e designazione di un Paese terzo come “Paese d’origine sicuro” dà sostanzialmente torto al governo italiano – la cui replica non si è fatta attendere –, che aveva ritenuto risolutivo, nell’identificazione del “Paese di origine sicuro”, la soluzione recata dal decreto-legge 23 ottobre 2024, n. 158.

La Corte chiarisce che il diritto dell’Unione non osta a che uno Stato membro proceda alla designazione di un Paese terzo quale Paese di origine sicuro mediante un atto legislativo, purché tale designazione sia oggetto di un controllo giurisdizionale effettivo sul rispetto sostanziale dei criteri e delle condizioni previste dall’ordinamento Ue (allegato I della direttiva 2013/32). La Corte sottolinea altresì che ogni elemento di conoscenza su cui si fonda la designazione debba essere accessibile al richiedente, per un effettivo esercizio dei suoi diritti di opposizione, nonché al giudice competente, per un vaglio fondato ed esaustivo dei requisiti di legittimità del provvedimento adottato.

La vicenda di L.C. e C.P., due cittadini della Repubblica popolare del Bangladesh soccorsi in mare e poi condotti in Albania e trattenuti nel centro di permanenza di Gjadër, la cui opposizione al diniego di asilo da parte delle autorità italiane ha trovato ascolto presso la Corte di giustizia Ue, dà la misura della complessità giuridica delle questioni in campo e suggerisce ai governi che nell’Europa dei diritti cercare scorciatoie normative – tanto più in materie che attengono alla tutela dell’integrità e della dignità della persona – non è mai una buona idea, ma non sposta di un centimetro il problema del governo politico dell’immigrazione irregolare.

Per affrontare il tema, appare corretto partire innanzitutto dalla dimensione del fenomeno e dalle sue cifre ufficiali. Secondo i dati del ministero dell’Interno, al 4 agosto 2025 gli sbarchi censiti di immigrati clandestini sono stati 36.935, dunque in linea con quelli registrati alla stessa data del 2024 (34.737), e meno della metà, in proiezione annua, di quelli verificatisi nell’intero anno 2023 (92.628). La sequenza storica di lungo periodo evidenzia picchi e cali anche molto significativi, ragionevolmente riconducibili sia alla drammatica ciclicità delle crisi che interessano le aree del mondo più esposte ai fenomeni migratori, sia anche a contingenti situazioni politiche interne di maggiore apertura o chiusura rispetto al fenomeno. Dal 2018, con la sola eccezione del 2022 (105 mila sbarchi), i clandestini censiti non hanno più superato la soglia dei 61 mila.

Ora, è mai possibile che 60 mila immigrati clandestini l’anno debbano costituire un fenomeno di allarme sociale ingovernabile in un Paese che presenta imponenti numeri di segno opposto legati al fenomeno della decrescita demografica e al fabbisogno di manodopera?

In Italia la “soluzione Albania”, oggetto della sentenza menzionata in premessa, è stata descritta dal governo come la chiave di volta per risolvere il problema degli sbarchi dei clandestini. Il presidente Meloni ne ha parlato nel giugno dello scorso anno come “un modello” e una “soluzione strutturale” al problema per l’Europa intera. In realtà, la costruzione e l’allestimento in Albania di due centri di accoglienza per immigrati clandestini sbarcati in Italia si è prestata, e si presta ancora oggi, a molte considerazioni di efficacia, efficienza ed economicità. L’immagine del pattugliatore Libra che fa solennemente rotta verso l’Albania con a bordo sedici disperati (ottobre 2024), quattro dei quali poi riportati in Italia perché minorenni o vittime di tortura, non è stato esattamente un esempio di geometrica efficienza. E anche il seguito, infarcito di sentenze, conflitti tra governo e magistratura, un decreto che mima nel dettaglio il modello inglese per aggirare le obiezioni dei giudici, e poi la riconversione degli istituti di raccolta in Cpr (Centri di permanenza per il rimpatrio), con tanto di chiarimento giuridico formale con l’Ue, sono tutti elementi che, già prima degli esiti in Corte di Giustizia, non incoraggiavano a identificare come modello di successo la scelta italiana.

L’operazione Albania, secondo il progetto redatto al suo esordio e sulla base della documentazione prodotta in sede di gara per l’affidamento dei servizi, avrebbe un costo superiore ai 130 milioni di euro. Nella struttura costruita a Gjadër (880 posti teorici) sono stati tradotti fino a 41 migranti, 16 dei quali da ultimo riportati in Italia per difetto di requisiti. Dell’altra struttura (quella di Shengjin) non si rinvengono dati ufficiali aggiornati sull’attuale utilizzo, ma nulla induce a ritenere che vada meglio, stando in particolare al Rapporto del luglio scorso pubblicato da Action-Aid Italia in collaborazione con l’Università di Bari. A fronte di una vastissima produzione giornalistica sull’argomento, in generale molto critica, non si rinvengono in Rete dati ufficiali aggiornati su quale sia la situazione nei due centri di accoglienza albanesi.

Ovviamente non ci si può accontentare di illustrare il sostanziale fallimento dell’operazione Albania o il naufragio della consimile operazione inglese a suo tempo messa in campo dal premier britannico Sunak. La sola cosa certa è che all’immigrazione illegale occorre dare delle risposte. E non ci sono troppe vie di mezzo: o si fanno le barricate e s’impediscono gli sbarchi, anche a onta del diritto internazionale e dei principi universali che fanno obbligo di prestare soccorso in mare a chi versa in situazioni di rischio, oppure si prova a fare uno sforzo di pragmatismo e si tenta di aprire strade nuove, come la politica dovrebbe sempre sforzarsi di fare. L’accoglienza caritatevole ed ecumenica è compito delle Chiese e delle onlus che meritoriamente lavorano a questo scopo. La politica ha il dovere di fare un altro mestiere, inventando soluzioni che siano praticabili, vantaggiose (socialmente ed economicamente) e capaci di tenere insieme senso di sicurezza e coesione sociale. Lo slogan dell’accoglienza di per sé non è una risposta politica.

Alcuni accordi con i Paesi di transito, più che un fallimento, si sono rivelati un capolavoro di ipocrisia. Si pensi al celebrato memorandum Italia-Libia del 2017, auspice un governo di centrosinistra. Nel giugno 2022, all’esito di una indagine sul campo, una missione Onu ha stilato un Rapporto (qui tutta la documentazione di riferimento) in cui si documenta che la detenzione arbitraria dei migranti in Libia è una sinistra routine, con un tragico corollario di reati odiosi contro la persona. In un comunicato ufficiale del 7 settembre successivo, la Corte penale internazionale ha dato notizia di aver ricevuto nel tempo “un’ampia gamma di informazioni credibili che indicano che migranti e rifugiati in Libia siano stati sottoposti a detenzione arbitraria, uccisioni illegali, sparizioni forzate, tortura, violenza sessuale e di genere, rapimenti, estorsione e lavoro forzato”.

Non si contano in questi anni le analoghe denunce di Amnesty International, Save the Children, Medici Senza Frontiere, Human Rights Watch e di decine di altri organismi e istituzioni. Ciononostante, l’accordo Italia-Libia continua a essere generosamente finanziato e rinnovato.

Recuperare i territori abbandonati: velleitarismo o senso pratico? Se il modello Albania non funziona e il protocollo Italia-Libia è puro fariseismo, chissà, allora, che – con un pizzico di follia visionaria, ma anche (a ben vedere) con una buona razione di sano pragmatismo politico – non si possa provare a immaginare qualcosa d’altro.

Vent’anni fa, in un convegno dal titolo Paesi Fantasma. Territori nascosti dell’Italia minore, Legambiente documentò che oltre 5 mila piccoli borghi del Paese, prevalentemente montani e pedemontani, erano a rischio abbandono. Da allora la situazione – complice anche le mutate condizioni climatiche – è decisamente peggiorata, come si evince più recentemente da un Rapporto della stessa Legambiente del 2024 ricco di spunti e proposte suggestive.

L’abbandono dei territori è un fenomeno che si è andato aggravando, con conseguenze dirette in termini di graduale e incessante peggioramento dell’assetto idrogeologico del Paese. Esiste evidentemente una stretta e documentata connessione tra l’abbandono dei territori e il loro graduale dissesto. Se non c’è chi cura più la montagna, la montagna frana a valle perché mancano i lavori di contenimento e manutenzione che da sempre hanno occupato le popolazioni residenti; perché vanno in malora terrazzamenti secolari; perché franano muretti a secco che, per secoli, sono stati tirati su e curati; perché avanza il disboscamento, alimentato dall’incuria, dagli incendi, dall’assenza di controllo umano sul territorio.

I dati forniti dal Terzo Rapporto sul dissesto idrogeologico (2021)dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) già attestavano come oltre il 90% dei comuni italiani fosse esposto a forme di rischio idrogeologico, con 8 milioni di cittadini residenti in comuni ad alto rischio. Secondo il Consiglio nazionale degli ingegneri, nell’ultimo quarto di secolo lo Stato ha speso 20 miliardi di euro per affrontare il problema, quasi sempre secondo una logica emergenziale. Stime più severe valutano in oltre 3 miliardi l’anno i costi sostenuti nell’ultimo decennio dal bilancio pubblico per riparare i danni conseguenti a frane e alluvioni. E l’Ispra nel suo Rapporto 2024 corregge al rialzo tutti i fattori di rischio, certificando, ad esempio, che in soli tre anni il rischio frane è aumentato del 15%.

Ora è ovvio che solo una parte di tale rischio è conseguenza diretta dell’abbandono dei territori e dei borghi montani; tuttavia, è evidente che il crescente spopolamento di molte aree montane e rurali del Paese determina un effetto di crisi ambientale i cui caratteri (diminuzione delle aree a coltura, abbandono dell’allevamento d’altura, minore cura dei versanti montani, ridotto presidio umano) si traducono in un esponenziale aumento delle emergenze territoriali a valle.

Si dirà: che cosa c’entra tutto questo con l’immigrazione illegale? Per rispondere a una domanda del genere, serve una buona dose di proterva arroganza, pari almeno a quella che ha permesso di celebrare come eventi salvifici l’accordo con la Libia o l’esperimento Albania.

E se ai disperati che sbarcano illegalmente sulle coste italiane (e ancor di più a quelli che vi sbarcano avendo diritto al titolo di rifugiato), invece di riservare un posto tra i recinti di un centro di accoglienza al costo di almeno 30-40 euro al giorno, senza prospettive che non siano il respingimento o il sostanziale vagabondaggio di cui siamo testimoni e spettatori ovunque, chiedessimo di rimboccarsi le maniche e andare a rimettere in piedi qualche borgo abbandonato? È ovvio che servono progetti pilota, moratorie burocratico-formali, cornici di sicurezza adeguate, verifiche sul campo e, anche, l’espulsione per chi (in assenza dei requisiti per l’accoglimento) manifesti indisponibilità. È ovvio che si tratta di una scommessa tutta da giocare, ma di fronte al fallimento di tante conclamate soluzioni, e a fronte del bisogno vitale di rivitalizzazione di molti territori del Paese, è possibile immaginare che un modello Riace possa essere ricostruito in laboratorio, per tentare di investire sull’immigrazione (persino su quella illegale) provando a trasformare un problema in un’opportunità? È davvero pura illusione mettere in piedi un esperimento di questa natura e progettare un pugno di progetti-pilota affidati a un rigoroso controllo pubblico frutto di partnership tra istituzioni nazionali e locali, con il concorso di associazioni datoriali, sindacati, comunità montane, associazioni di volontariato e quant’altro? Se l’immaginazione della politica si è potuta spingere fino a descrivere come “soluzione strutturale” il modello Albania, si potrà bene immaginare qualcos’altro senza essere tacciati di velleitarismo.

Se la politica si limita al giorno per giorno o, peggio, insegue le peggiori derive del pubblico sentire, viene meno al suo compito essenziale. I fenomeni migratori sono fenomeni epocali. Nel primo decennio del Novecento il tasso di emigrazione dall’Italia fu pari a 108 persone ogni mille abitanti, il doppio di spagnoli e portoghesi. Tra gravi difficoltà, incalcolabili ingiustizie e sofferenze immani, questi flussi sono stati metabolizzati e poi anche valorizzati. Certo, il mondo è molto cambiato da allora, ma non diverse sono le spinte che muovono il fenomeno. Governarlo, anche con capacità visionaria, coraggio e gusto della scommessa, è compito della buona politica. Girarsi dall’altra parte o illudersi di spostare altrove i problemi non è solo eticamente inaccettabile, ma alla lunga è esiziale per l’esistenza stessa dei nostri fragili e invecchiati recinti nazionali. Se non si vuole farlo per ragioni umanitarie, lo si faccia per calcolo.

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