C’è una nuova parola nel mondo delle startup: Inculator
Chi sono le pmi innovative?

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No, non è un refuso di incubatore, anche se ci piacerebbe. Si scrive proprio così, con la L al posto della B. Qualcosa che neppure il Bagaglino (ve lo ricordate?). Chi l’ha coniata ovviamente non conosce l’italiano né le vignette di Altan.

Inculator è una parola macedonia, un neologismo sincratico che nasce dalla fusione di incubator e accelerator, due termini che chi nuota nel mare dell’innovazione conosce bene. L’incubatored’impresa è “un’organizzazione che accelera e rende sistematico il processo di creazione di nuove imprese fornendo loro una vasta gamma di servizi: dagli spazi fisici alle opportunità di networking”.

L’acceleratore invece di solito interviene a cose fatte, investendo su un’impresa con un potenziale per accelerarne lo sviluppo, in un tot di tempo. In realtà, i due finiscono a volte col sovrapporsi, il che spiega perché qualcuno ha deciso di metterli assieme in inculator: un acceleratore che richiede più tempo per sviluppare idee e costruire un business.

“Gli imprenditori, gli investitori e altri che vivono le sfide sociali dal punto di vista del business e che si riuniranno a San Francisco questa settimana per l’annuale conferenza del Social Capital Markets, possono aggiungere una nuova parola al loro vocabolario“, riporta il sito Devex.com. “E la parola è… inculator, fusione di incubatori e acceleratori. Appare in un rapporto pubblicato martedì dal Fondo Seed Unitus, che investe in start-up indiane, e…“.

E va bene fa ridere, ammettiamolo. E prima di generare profitti l’inculator in Italia genererà doppi sensi, come neppure Skypho(vecchio servizio di telefonia voip), l’aggettivo e il nomignolo del calciatore brasiliano Ricardo Izecson dos Santos Leite (in arte Kakà), a cui ci siamo lentamente abituati. Ma a Inculator no, è più difficile.

C’è da scommetterci che non si piegherà neppure il neo-italianodegli addetti ai lavori dell’hi-tech e dell’innovazione, di solito abbastanza permeabili alle parole straniere. Perché in un paese latino (e un po’ maschilista) il sesso anale, quando esime dal desiderio, è ancora oggi sinonimo di sodomizzazione forzata, pena che richiama alla mente indicibili torture praticate nell’antichità dai tartari e dai turchi (e prima di loro, pare, anche dagli egizi).

L’unica speranza è che i nostri cugini italo-americani, 18 milioni secondo l’ultimo censimento, provvedano loro a spiegare l’equivoco linguistico agli investitori della Silicon Valley. Ci riusciranno?

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