E se arrivasse davvero? Il ministro Saccomanni qualche timido segnale di ripresa lo vede, e si preoccupa. Non del fatto che arrivi ma per il rischio soffocamento. In realtà quei timidi segnali sono già un miracolo, in un paese nel quale il credito nei tre mesi sino a fine maggio è diminuito su base annua del 5%. I segnali sono l’interruzione della discesa della produzione industriale, gli ordini soprattutto dall’estero, un recupero lieve di fiducia. U n ulteriore segnale è costituito da un rallentamento nella crescita dei crediti in sofferenza. Che questi fragili fili d’erba (metafora di Mario Deaglio) siano spuntati su un terreno fino a ieri ghiacciato è già un miracolo, come sia potuto accadere in un contesto di riduzione del credito (deleveraging) così severo ha i contorni del mistero, un cui inizio di spiegazione sta nel fatto che l’economia trova le sue strade per sopravvivere, e a volte, non sempre, ce la fa. La strada in questione è la debancarizzazione del credito. Sono le imprese stesse che si tengono in piedi l’un l’altra facendosi credito a vicenda, non in forma esplicita ma attraverso i tempi dei pagamenti, così surrogando all’assenza sul mercato delle banche. È ovviamente una circolazione asfittica, che basta appena
per la sopravvivenza in una economia a bassissimo regime di giri. Ma se i giri salgono, come potrebbe accadere nei prossimi mesi se quei fili d’erba diventassero un praticello? In quel caso l’autosostentamento dell’economia reale non basterebbe più a fornire la liquidità necessaria e l’erbetta della crescita rischierebbe – ma più che un rischio è una certezza di appassire subito. Di qui la preoccupata urgenza di Saccomanni di trovare soluzioni, e quella parallela della Commissione Finanze della Camera, che sta ascoltando vari protagonisti del mondo dell’economia, della banca, delle assicurazioni e della finanza a caccia di proposte. Che non sono mancate. Quelle di più rapida attuazione, più concretamente realizzabili e compatibili con i conti pubblici riguardano i fondi di garanzia. I motivi per i quali le banche non prestano più soldi alle imprese e alle famiglie sono essenzialmente tre: la carenza di capitale (i parametri di vigilanza fissati da Basilea III prevedono un rapporto tra il patrimonio netto tangibile delle banche e il credito che possono erogare), la carenza di liquidità (le banche italiane hanno in essere crediti pari a oltre 115 per cento della raccolta diretta, e quella indiretta soprattutto sui mercati internazionali si è fatta più difficile e costosa), il costo del rischio (ovvero la percentuale delle sofferenze sui crediti erogati). Di questi tre motivi i primi due si sono fatti meno stringenti, pur restando rilevanti, perché le banche hanno mediamente aumentato il capitale di vigilanza e perschio ché la Bce le ha finanziate massicciamente per risolvere il problema della liquidità (ovviamente alla Bce i denari dovranno essere restituiti, ma la banca centrale non farà mai mancare al sistema la liquidità necessaria a stare in piedi). Ridimensionati i primi due, oggi la ragione principale per la quale le banche tengono stretti i cordoni della borsa è essenzialmente l’ultimo, ovvero il costo del rischio di credito. Se la forbice tra i tassi attivi e quelli passivi è stretta le banche guadagnano poco erogando credito, e se è probabile che una parte consistente di quel credito non torni indietro perché l’economia non tira e le imprese chiudono, la realistica Antonio Patuelli prospettiva è di avere dall’attività creditizia margini nulli o negativi. Insomma più si presta più ci si rimette, e alla fine la scelta dei banchieri è di utilizzare la liquidità disponibile per comprare titoli di stato il cui rendimento, checché ne dica Standard & Poor’s, è decisamente più sicuro. Essendo questo il quadro, si capisce perché i fondi di garanzia siano lo strumento più gettonato. Perché da una parte i crediti garantiti dallo Stato non rientrano tra quelli che incidono sul capitale di vigilanza e quindi annullano uno dei motivi che limitano la capacità delle banche di prestare soldi mentre, dall’altra, azzerano o riducono il costo del rischio per le banche, trasferendolo sullo Stato. Ovviamente questo trasferimento di rischio, ovvero di un costo futuro potenziale, è un problema, perché un domani lo Stato, ovvero il suo fondo di garanzia, potrebbe trovarsi a dover ripagare alle banche quei crediti che i debitori non fossero in grado di restituire essi stessi. Tuttavia ci sono due elementi che consentono di rendere compatibile l’utilizzo massiccio di questo strumento con i vincoli della finanza pubblica. Il primo è frutto di uno studio di Unicredit presentato dal direttore generale Roberto Nicastro nell’audizione del 2 luglio scorso alla Commissione Finanze della Camera. Da quello studio emerge che se l’Italia ha un elevatissimo debito pubblico esplicito in rapporto al pil, il secondo in Europa dopo la Grecia, ha invece un debito pubblico implicito (le passività potenziali future) molto basso, il più basso della Ue e dell’Eurozona, pari al 28 per cento del pil, contro, per esempio, il 109 per cento della Germania. La buona notizia per i Fondi di garanzia è che riguardano passività potenziali future, quindi l’impegno non ricadrebbe sul debito esplicito, quello alto, ma trattandosi di passività potenziali future, su quello implicito, e cioè quello basso. Questo allenta la morsa, ma non esime dal valutare a quanto questo debito futuro potenziale potrebbe ammontare e la sua sostenibilità. E qui siamo al secondo elemento che rende questa proposta realistica. Oggi, nel momento più tragico dell’economia italiana, il cosiddetto “tasso di decadimento” dei fondi dedicati alle garanzie (ovvero il costo effettivo per il garante, e in questo caso per lo Stato) è – secondo quanto ha dichiarato Nicastro alla Commissione Finanze – del 3,5 per cento annuo. Per 10 miliardi di credito erogato, 350 milioni. Non è poco, ma accantonando un miliardo, magari nel giro di due anni, quindi con 500 milioni l’anno a carico del bilancio dello Stato, si potrebbero garantire 30 miliardi di crediti. Questa cifra, rilevante ma probabilmente non sufficiente, potrebbe però essere facilmente raddoppiata se si adottasse una semplice misura, che risponde tra l’altro all’esigenza di evitare che le banche eroghino credito anche a chi non lo merita, sapendo di non correre alcun rischio (perché lo corre lo Stato). La misura sarebbe quella di prevedere che la garanzia pubblica arrivi a coprire il 50 per cento del credito, lasciando così alle banche una parte del rischio, e quindi una maggiore responsabilità nel processo di erogazione. In questo modo il costo del rischio di credito per le banche non scompare ma si dimezza, tornando ad una dimensione “normale” e assolutamente compatibile con l’attività degli istituti, raddoppiando al contempo l’ammontare del credito erogato, che così da 30 miliardi in due anni balza a 60, sempre grazie a quel miliardo (500 milioni l’anno) accantonato dallo Stato. Per determinate categorie di debitori, inoltre, si potrebbe prevedere un’ulteriore misura. Poiché le imprese italiane hanno poco capitale e sono troppo dipendenti dal credito bancario, si può subordinare l’erogazione del credito e l’ammissione alla garanzia ad un aumento dei mezzi propri dell’impresa, magari effettuabile anche con il conferimento di immobili. In questo modo le risorse attivabili per le aziende potrebbero salire ancora. Quest’ultima fattispecie è adottabile anche per i mutui, che già godono della garanzia dell’immobile. In questo caso l’ulteriore garanzia pubblica, dimezzando il rischio per le banche, che è già intorno a un terzo del valore del mutuo erogato, potrebbe rimettere in moto il mercato immobiliare, che vede oggi 700 mila appartamenti in attesa di compratore, che ci sarebbe pure ma al quale le banche non danno i soldi. La conclusione è che il credit crunch c’è, e non solo è un ostacolo all’avvio della ripresa ma anche una corda che si stringerà al collo della ripresa non appena questa dovesse manifestarsi. Non possiamo permettercelo, dopo cinque anni di crisi e con milioni di disoccupati. 500 milioni l’anno o magari un po’ di più (e se l’economia ripartisse e le chiusure aziendali diminuissero l’esborso finale potrebbe anche ridursi sostanzialmente) è invece una cifra che tra le pieghe degli 800 miliardi del bilancio pubblico potrebbe essere trovata. Non farlo sarebbe imperdonabile. Nel grafico qui sopra, la rapida crescita delle sofferenze bancarie tra l’agosto del 2011 e il maggio di quest’anno Da sinistra a destra, il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, il Governatore Ignazio Visco e il presidente Abi, Qui sopra, i dati sui prestiti e sulla raccolta bancaria: è chiara la diminuzione dei primi e la crescita della seconda