«Intesa, addio banca di sistema Fare i soci non è il nostro mestiere»

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«Abbiamo delle responsabilità e non ci giriamo dall’altra parte, ma il nostro compito adesso è tornare a fare la banca chiudendo con chiarezza, nei tempi e nei modi dovuti, la stagione delle cosiddette operazioni di sistema». Lo chiamavano il «professore tranquillo», nei ‘90, mentre gli affidavano una dopo l’altra poltrone problematiche. Vent’anni dopo Gian Maria Gros-Pietro, classe 1942, ultimo presidente dell’Iri e poi numero uno di Eni e Autostrade, l’economista industriale torinese amico di Prodi e caro a Ciampi, chiamato da Berlusconi nel comitato Draghi per le privatizzazioni, non ha perso flemma e sorriso.
Da sei mesi è il presidente del consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo. Con Giovanni Bazoli, presidente di sorveglianza e padre della superbanca, e il neo consigliere delegato, il cinquantenne Carlo Messina, ne guiderà la nuova transizione. Che vedrà a primavera il varo di un piano industriale, il primo dopo quello realizzato da Corrado Passera nel 2011.
Professore, la banca di sistema non c’è più?
«Siamo dentro il sistema e ne teniamo conto. Il senso di responsabilità ci impone di non creare sconquassi, andarsene rompendo tutto non è qualcosa che la prima banca italiana può fare. Ma ci è molto chiaro qual è la priorità: occuparci dei nostri clienti, famiglie e imprese».
Alitalia, Telecom, Rcs, sono questi gli schemi da non replicare?
«Con tempi e modalità adeguate ci sfileremo da un ruolo che non è il nostro: non saremo azionisti di lungo termine. Non intendo minimizzare peso e impatto di queste operazioni, ma va ricordato che esse rappresentano solo lo 0,5% dei nostri attivi».
Qual è il modello cui guardate allora?
«Ad esempio, l’operazione Prada, chiusa con la soddisfazione di tutti e una significativa plusvalenza. La banca ha affiancato l’azienda in un momento difficile, anche acquistandone una partecipazione, il 5%, e mantenendola per il tempo necessario a consentirle di riprendere il cammino alla grande».
Nonostante qualche contrarietà emersa al vostro interno, in Alitalia avete scelto di restare coinvolti: perché?
«Alitalia sarebbe fallita, un danno enorme per tutto il Paese e quindi anche per i nostri clienti. Ad Alitalia bisogna dare il tempo di trovare un partner, perché senza non può stare in piedi. E Air France mi pare il più adeguato».
La gestione del dossier Telco-Telecom ha destato molte perplessità…
«Telco è un’eredità impegnativa per tutto il sistema finanziario. La decisione di uscire è stata presa proprio in relazione al fatto che quello di azionista non è il nostro mestiere» .
È un problema se la rete finisce in mani straniere?
«Come economista dico che non conta chi ne è proprietario ma gli investimenti che vengono fatti e i servizi che poi la società è in grado di offrire. Il Paese ha bisogno di maggiore competitività e questo passa anche attraverso una rete più efficiente».
Anche in Rcs, l’editore del «Corriere della Sera», il vostro approccio sta cambiando?
«Oggi si tratta prima di tutto si definire un percorso che consenta al “Corriere” di continuare a svolgere la sua autorevole funzione. Dopodiché il nostro ruolo sarà concluso. Ricordo il grande rispetto sempre portato dal professor Bazoli e dai vertici della banca al quotidiano e al suo gruppo editoriale, quale valore per il Paese, e l’impegno a difesa dell’indipendenza e dell’autonomia dei suoi giornalisti».
Come valuta la decisione del consiglio di amministrazione di Rcs di vendere al fondo americano Blackstone il palazzo di via Solferino a Milano, sede storica del «Corriere»?
«Non commento le decisioni del consiglio di amministrazione della società. Rilevo tuttavia che in questa occasione il fatto che Intesa Sanpaolo sostenga Rcs sia come azionista che come finanziatore è fonte di problemi: una ragione in più per dismettere, appena possibile, il ruolo di azionista che non ci è proprio».
Il faro resta acceso anche sui crediti concessi alla Tassara di Zaleski. Solo per certi nomi i soldi ci sono sempre…
«Questo non è vero. Dal 2009 a oggi, anni di dura crisi per tutta l’economia italiana, abbiamo concesso una moratoria dei crediti ad oltre 80.000 piccole e medie imprese e a decine di migliaia di famiglie, per un totale di 24 miliardi di euro, senza ridurre lo stock di finanziamenti complessivo destinato a questi segmenti dell’economia. E finanziamo il settore non profit con 4,6 miliardi di euro di crediti».
La Banca d’Italia ha avviato un’ispezione nelle prime due banche, Intesa e Unicredit, in vista delle valutazioni sui bilanci della Bce il prossimo anno. Come uscirete da questo primo esame?
«L’ispezione è un primo passaggio, un pettine fitto dal quale non si può escludere che emerga la necessità di piccole correzioni. Ma non ci aspettiamo riflessi importanti: con un common equity sopra l’11%, e una patrimonializzazione tra le più solide a livello europeo, attraverseremo l’esercizio senza danni».
Intesa è anche un laboratorio di governance. Il dualistico che ha accompagnato l’integrazione tra le banche di Milano e Torino potrebbe essere a questo punto abbandonato per il ritorno al consiglio unico. C’è un calendario?
«Innanzitutto la governance è una tema che riguarda gli azionisti, che non può essere affrontato in modo precipitoso. Per mettere a punto un modello di governance alternativo, tecnicamente valido e che raccolga il consenso dei soci, servono tempo e una riflessione sulla nuova situazione dell’industria bancaria: una operazione alla quale, come banca, possiamo soltanto collaborare sul piano tecnico. Noi, invece, stiamo riscrivendo il regolamento del consiglio di gestione per dare attuazione alle modifiche statutarie già approvate dall’assemblea degli azionisti della scorsa primavera, volte ad assicurare una maggior efficacia della funzione gestionale».
Le Fondazioni faranno un passo indietro nel capitale delle banche?
«Nel tempo credo che almeno qualcuna di esse potrebbe desiderarlo: anche in questo caso andrà definito un percorso che non metta in difficoltà il sistema, che pure negli anni ha beneficiato dei soci stabili e anche della loro disponibilità, in tempi di crisi, a sostenere la capitalizzazione della banche».
Come si è arrivati al dimissionamento da consigliere delegato di Enrico Cucchiani e come mai resta ancora sei mesi nel gruppo da direttore generale?
«Il dottor Cucchiani ha gestito bene il bilancio, e questo è il compito primario di un amministratore delegato. Adesso è il momento del lavoro di squadra perché la banca deve mobilitare le competenze che possiede. Cucchiani collaborerà ancora per sei mesi, soprattutto sul fronte internazionale. Non ci sono altri accordi oltre a quelli dichiarati» .
Quando presentate la «nuova» Intesa?
«In primavera, quando Carlo Messina, un manager giovane, capace e stimato, presenterà il piano al quale sta già lavorando con l’impegno di tutta la prima linea. Certo, un piano non è una “profezia” e nel corso della sua esecuzione aggiustamenti sono sempre possibili. Ma è importante indicare dove stiamo andando» .

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