Mps: chi vincerà al Palio dell’aumento

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Chi l’avrebbe mai detto. L’opinione prevalente, soltanto un anno fa, era che il Monte dei Paschi aveva il destino segnato: la nazionalizzazione era ritenuta l’unica possibilità di evitare il fallimento, perché le sofferenze aumentavano in misura esponenziale, la redditività crollava, l’intreccio perverso con la politica risultava irrimediabile. Le difficoltà erano tali che, in alcuni momenti drammatici, perfino la liquidità necessaria per le normali attività bancaria ha rischiato di non essere sufficiente a tenere botta. 

Azionisti stabili
Eppure non è andata così. E oggi Mps ha le carte in regola per tornare ad avere un ruolo di peso come terza banca italiana, con un grande punto interrogativo sull’azionariato. L’ex socio di controllo, la Fondazione, è sceso sotto il 3 per cento e, d’intesa con la messicana Fintech advisory di David Guzman e i brasiliani di Btg Pactual, ha costituito un patto di sindacato che non arriva al 10 per cento del capitale. Troppo poco per garantire il controllo della banca, anche se candidato a essere polo aggregante.
La previsione è che, dopo l’aumento di capitale da 5 miliardi in corso, l’azionariato risulterà assai parcellizzato. Ma Alessandro Profumo, presidente del gruppo, ha precisato di non avere mai pensato a una public company nonostante l’arrivo di un discreto numero di fondi americani, a partire da BlackRock. Molto meglio, secondo lui, «un azionariato stabile che accompagni la crescita della banca».
Un nuovo modello
In effetti il modello public company sul mercato italiano fatica ad affermarsi. L’eccezione è Prysmian, leader internazionale nella produzione di cavi, mentre per Telecom la partita è aperta. Non basta per risultare una prospettiva credibile. Di sicuro va dato atto a Profumo e all’amministratore delegato, Fabrizio Viola, di avere realizzato una cura draconiana: 600 milioni di costi tagliati in due anni (pari al 20 per cento delle spese), margini d’interesse effettivi e commissioni nette in ripresa (rispettivamente del 4,3 per cento e del 10 per cento nel primo trimestre dell’anno), 7 dei 29 miliardi ottenuti dalla Banca centrale europea già restituiti (più un’altra manciata che verrà rimborsata entro l’estate, con la previsione di ridarli tutti entro il 2015).
Il risultato è l’avvio lunedì 9 giugno di un aumento di capitale più simile a un collocamento in Borsa, perché vale 5 miliardi di euro contro una capitalizzazione che non arriva a 3 miliardi nonostante il raddoppio degli ultimi mesi. Così chi non ha creduto nelle possibilità di ripresa è stato punito perdendo l’opportunità di guadagni consistenti. Chi ha fatto un affare è lo Stato che, se l’operazione avrà successo, incasserà cash a luglio 3 miliardi più 500 milioni d’interessi (pari al 9 per cento annuale, ritoccato al 9,5 per cento da gennaio). Adesso si tratta di capire se dietro l’angolo sbucherà qualcuno che ne farà un altro ancora più vantaggioso.
Proprio la crescita del titolo ha permesso alla Fondazione di evitare il fallimento. In dicembre Antonella Mansi, il presidente, si è opposta all’aumento di capitale che Profumo voleva effettuare subito e che avrebbe azzerato la sua partecipazione.
Una scelta difficile, che ha portato allo scontro frontale con Profumo, ma che è risultata vincente. E che ha permesso alla Mansi di annunciare l’uscita di scena dicendo «missione compiuta» e al consulente più vicino, Carlo Salvatori, banchiere di lungo corso, attualmente alla guida della francese Lazard, di chiudere in bellezza l’operazione.
In campo
La continuità tra il primo progetto di aumento del capitale e quello in corso è assicurata da un manager abituato da sempre a fare squadra con Profumo: Sergio Ermotti, numero uno del colosso bancario svizzero Ubs, in passato tra i suoi principali collaboratori in Unicredit. Ermotti ha mosso i primi passi alla Corner bank, una piccola banca di Lugano presso la quale lavorava il padre, molto frequentata, nei lontani anni Settanta, dai vertici della Montedison di allora, quella guidata da Mario Schimberni. Entrambi sono molto legati a un terzo banchiere: Andrea Orcel, capo dell’investment bank di Ubs, che ha condiviso con Ermotti l’esperienza comune in Merrill Lynch. Orcel è uno dei manager bancari di maggior peso in Europa, gran consigliere di Profumo ai tempi di Unicredit e di Emilio Botin, l’azionista di comando dello spagnolo Banco Santander.
E’ facile prevedere che il futuro di Mps si giocherà sui loro tavoli. Ubs, in particolare, è sia azionista significativo del gruppo senese con poco meno del 2,4 per cento sia capofila dell’aumento di capitale in corso (affiancata da Mediobanca, Goldman Sachs e Citygroup).
Oggi il Monte dei Paschi è tornato nelle condizioni di sollecitare interessi e la prospettiva è quella europea ma, molto probabilmente, è ancora troppo presto per capire dove andrà a parare. Senza contare qualche diffidenza di chi si chiede se davvero i conti della banca senese non nascondono qualche altro baco. Ma è altrettanto vero che, a questo punto, nessun bilancio bancario è stato analizzato più a fondo da un discreto numero di controllori al massimo livello: dalla Banca d’Italia alla Bce, passando dalla magistratura.

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