Il rapporto dei giovani con gli strumenti più moderni mostra preoccupanti lacune in diversi settori cruciali
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Tutto troppo facile, forse, troppo touch, troppo plug and play. Invece chi ha scoperto Internet negli anni Novanta si ricorda chiaramente, anche se senza troppe nostalgie, il rumore dei modem 14.4k mentre prendevano la connessione, i problemi per installare un programma sul PC, e magari le ore passate a imprecare cercando di collegare una periferica che proprio non voleva saperne di essere letta.

Ora, a parte chi ha scelto la strada della programmazione (ma anche in questo caso gli strumenti per sviluppatori sono diventati molto più user-friendly), il sospetto è che il digitale e soprattutto il PC siano meno familiari ai ragazzi di quanto possa sembrare di primo acchito. Isolati in enclave con regole precise, come Snapchat e Instagram, per paradosso hanno forse meno competenze oggi di qualche tempo fa.

 

A sostenerlo è una recentissima ricerca effettuata da University 2 Business, dal titolo Il Futuro è oggi: sei pronto?. Per gli universitari, solo il 59% pensa che le competenze digitali siano essenziali o molto importanti per trovare lavoro, a differenza delle aziende che toccano il 94%. Dire “Internet” è alludere a un universo straordinariamente vario, ma a quanto sembra non per i giovani universitari, per il 53% dei quali il web è solo navigazione e social media, senza un vero ruolo attivo da parte loro. Solo il 12% ha un suo sito o blog, e per il 91% parole come SEO, SEM, Adwords sono pressoché incomprensibili.

E dire che il costo delle offerte ADSL e fibra ottica fino a 1 Gbit/s non è mai stato così basso, con Internet alla portata di tutti anche in versione mobile: ormai non sono rare le offerte per telefonini che permettono di pagare 1 GB di navigazione, di fatto, solo 50 centesimi.

 

Non è quindi, a quanto sembra, un problema di costo: è un altro genere, insomma, di digital divide. Lo spazio per nuove professioni come Social Media Specialist, Data Scientist, SEO Specialist è in continuo aumento, con una richiesta costante dalle aziende, ma solo un numero tra un quarto e un terzo degli studenti universitari ha un’idea del profilo necessario per questi ruoli. Può sembrare una contraddizione in termini, nell’era degli influencer via YouTube che con una telecamera e poco altro hanno milioni di iscritti, ma non lo è, malgrado il 13% abbia un canale proprio sulla celebre piattaforma video.

Soprattutto, emerge come la scuola e l’università siano ancora inadeguate a offrire una preparazione moderna: se la percentuale di studenti che sa programmare o sta per imparare è del 30%, solo il 15% ha appreso queste competenze in università. Inoltre, la propensione al digitale è minore per le femmine rispetto ai maschi.

 

Il rischio è che il ritardo si faccia sentire: secondo Andrea Rangone, CEO di Digital360 (la società a cui fa capo University 2 Business), «anche se la maggior parte degli studenti universitari dichiara di avere consapevolezza del ruolo importante svolto dall’innovazione digitale nel cambiare l’economia e le imprese, solo una piccola parte di essi si prepara concretamente per questa sfida, cercando di sviluppare competenze digitali approfondite e di fare esperienze imprenditoriali concrete». Per fortuna, le eccellenze ci sono sempre: uno studente su 10 sta per avviare una startup.

 

 

La scarsa dimestichezza con le dinamiche del digitale e del web – non basta, infatti, essere dei maghi a comporre hashtag o trovare i filtri giusti per le proprie foto per usare Internet in modo responsabile – può avere ricadute ancora più inquietantirispetto al mancato sviluppo delle competenze.

Una recente ricerca dell’Università di Stanford, con Sam Wineburg come autore principale, ha evidenziato come i giovani oggi non siano in grado di distinguere le notizie vere dalle bufale online. Un problema all’ordine del giorno: una frase mai pronunciata dal Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ha appena fatto il giro del web, anche se inventata di sana pianta.

 

È opinione comune che Facebook e gli altri social network non facciano ancora abbastanza per eliminare le notizie false su Internet, anche perché il tema è delicato, coinvolgendo la libertà di stampa. Su un campione di 8mila ragazzi, la ricerca di Wineburg ha mostrato, intanto, come quasi la metà dei ragazzi associ all’incidente di Fukushima la foto di un animale con malformazioni, anche se queste non sono mai avvenute. L’autorevolezza di una fonte viene raramente messa in discussione: un post scritto da un dirigente di banca, ad esempio, viene creduto ciecamente da tre quarti del campione.

Come rileva Wineburg, “molte persone pensano che poiché i giovani sanno usare i social media sono egualmente bravi a giudicare quello che c’è scritto, ma il nostro lavoro mostra che la realtà è opposta”.

 

Intanto, anche senza strumenti adeguati i giovani continuano a frequentare Internet e il web come non mai, a giudicare anche dai nuovi dati del rapporto Censis. Il 73,7% degli italiani nel 2016 è stato su Internet, ma la percentuale Under 30 è addirittura del 95,9%. L’89,4% dei giovani possiede uno smartphone, contro un dato medio nazionale, pur ragguardevole, del 64,8%, e la percentuale di under 30 che usa WhatsAppè dell’89,4% contro 61,3%. Ancora molto frequentato Facebook (89,3% contro il 56,2%).

 

Insomma, la necessità di includere nei programmi educativi un uso responsabile di Internet e del web, parallelamente puntando di più su una formazione costante e di qualità nel settore informatico – anche al di là di manifestazioni che durano solo pochi giorni e non cambiano realmente la situazione – appare non più procrastinabile. Altrimenti il rischio è che il bullismo, i pericoli di una navigazione non controllata e l’incapacità di scegliere un’informazione indipendente, controllata con il fact-checking e non soltanto virale, possano rovinare un’intera generazione ancora prima di affacciarsi sul mondo del lavoro.

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