Riforma banche popolari, si muovono le lobby. 60 giorni per cambiare verso alla norma. Primi a partire sono i cattolici

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banche-popolariSessanta giorni. È il tempo che richiede la conversione in legge del decreto in cui sono contenute le misure per riformare le prime dieci banche Popolari e trasformarle, entro i prossimi diciotto mesi, in società per azioni. In questi sessanta giorni, in cui lo scenario di riferimento può cambiare drasticamente considerando la corsa per il Quirinale e le prossime mosse della Bce sul quantitative easing, si consumerà una guerra feroce fra lobby politiche e interessi di campanile.

La prima battaglia è già cominciata ed ad alzare prontamente le barricate contro la riforma delle grandi banche rette dall’anomalo voto capitario sono stati i cattolici formando inedite alleanze trasversali. Dai cattocomunisti, come Beppe Fioroni e Stefano Fassina, al ciellino lombardo Maurizio Lupi passando per il reduce degli anni d’oro della Balena Bianca, Paolo Cirino Pomicino.

Tutti uniti nel difendere la “democrazia economica” e i “baluardi dell’italianità”. Ai “crociati” politici si è subito aggiunta la voce dei vescovi attraverso le Acli, ovvero le Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani, e il megafono dell’Avvenire. “Chiediamo al Governo di togliere dal pacchetto investimenti la riforma delle banche popolari e di non procedere all’abolizione del voto capitario”, aveva tuonato – invano – nei giorni scorsi Gianni Bottalico, presidente nazionale delle Acli, invocando anche i rischi di dare “in pasto alla speculazione finanziaria più spregiudicata ciò che resta del risparmio degli Italiani e che le piccole banche popolari e di credito cooperativo utilizzano per lo sviluppo dei territori”. Quanto al quotidiano organico ai vescovi, stamattina l’Avvenire ha dedicato tre lunghi articoli alla riforma annunciata ieri da Renzi con titoli che esprimono chiaramente la linea del giornale: “Riforma sbagliata, doccia fredda per le Popolari”, l’editoriale affidato a Leonardo Becchetti su “L’arbitro smemorato” e l’intervista al professore della Bocconi, Andrea Resti (il titolo: “Nessuna necessità e urgenza, il decreto un errore madornale”) . Il quale, oltre a insegnare all’Università, è anche consigliere di Ubi nonché capo della lista di minoranza Ubi Banco Popolare vicina ai soci bergamaschi arrivata seconda alle elezioni di fine aprile 2014 del consiglio di sorveglianza (in opposizione alla lista vincitrice).

Questa la posizione della parte cattolica della politica e di una parte della Chiesa più legata al territorio e agli interessi di campanile. Da non confondere con la finanza cattolica, quella che conta davvero, i cui alfieri sono ancora due arzilli ottantenni: il dominus di Intesa Sanpaolo, Giovanni Bazoli, e il patron di Cariplo e delle Fondazioni, Giuseppe Guzzetti. Non è un caso, fanno notare alcuni osservatori, che gli enti non siano stati toccati dalla furia riformatrice renziana peraltro invocata a più riprese da Francoforte. Del resto, le fondazioni si stanno già autoriformando sul modello Mps. Ovvero scendendo nel capitale della banca per diversificare il patrimonio e non offrire più alibi a chi ne ha sempre – giustamente – contestato il ruolo di stanza di compensazione con la politica e trovando investitori di fiducia con cui stringere accordi, cedendo loro parte delle quote in modo da fare cassa, per avere ancora voce in capitolo sul governo societario. Quanto a Bazoli, il professore bresciano non si è ancora espresso direttamente sulla riforma ma lo scorso 4 novembre ha invocato l’abbattimento degli steccati per gli investimenti da parte di soggetti esteri nelle banche. E oggi al Corriere della Sera Italo Folonari, segretario dell’Associazione Banca Lombarda e Piemontese degli azionisti di Ubi presieduta dallo stesso Bazoli, ha ricordato che i soci arrivano “da una cultura più legata alla spa che al modello popolare, e vediamo bene un ritorno alla società di capitali”.

Le barricate alzate trasversalmente in questi giorni sono dunque di natura politica e provengono soprattutto dall’associazionismo e da chi in questi anni ha raccolto consenso elettorale nei territori dove sono presenti le banche coinvolte dal decreto legge. Non potendo più determinare come prima gli equilibri delle fondazioni bancarie per il controllo degli istituti (Mps docet), infatti, la politica locale restava aggrappata al voto capitario nelle Popolari. Non solo. Se la riforma va in porto, potrebbe venir meno anche il peso di associazioni e dei politici locali nella riorganizzazione del terzo settore che in questo momento vede come protagoniste le fondazioni, con la regìa della finanza cattolica, più propense a ragionare in un’ottica europea piuttosto che di localismi interessati e di consenso elettorale.

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