Il 17 luglio 1983 un nastro con una voce di donna è stato fatto trovare a un cronista sulla scalinata di via della Dataria a Roma, dopo una telefonata di un uomo che ha affermato di essere uno dei rapitori di Emanuela Orlandi. La voce era giovanile. L’anonimo parlava in perfetto italiano…»
Emanuela Orlandi, la «cassetta delle sevizie» e una verità che manca da 41 anni. Eccolo, l’indizio-clou del giallo della «ragazza con la fascetta», sul quale negli ultimi tempi si è concentrata l’attenzione: si tratta del famigerato nastro depositato dai rapitori in via della Dataria, a due passi dal Quirinale (non per caso), il cui lato B conteneva lamenti di donne forse sottoposte a violenza e, in chiusura, le implorazioni di una ragazza che chiedeva di dormire. Voce (solo quest’ultima) che i familiari hanno attribuito con certezza a Emanuela e che, come tale, costituisce una prova di autenticità: quella comunicazione contenente gemiti inquietanti («Fa male! Basta! Dio, perché?») non fu opera di mitomani, ma di soggetti che detenevano l’ostaggio, tanto da poter inserire la frase conclusiva. È un punto fermo: quegli audio ci portano ai veri responsabili.
L’appello del lato A
Ma c’è dell’altro. Grazie a una nuova consulenza fonica e al recupero di vecchi atti, si è in grado di compiere il passo successivo, rimasto un buco nero di tutte le inchieste: decrittare finalmente anche il lato A della «cassetta delle sevizie», quello da un contenuto prettamente politico, con il quale i rapitori dettarono le loro condizioni alle controparti (Vaticano e Stato italiano), riuscendo a restare sottotraccia, con trattative occulte, proprio grazie alla cortina fumogena sollevata dalle grida strazianti (e depistanti, tratte da un film porno, ipotizzò il Sisde) infilate nel lato B. L’esito del viaggio, come vedremo, fornirà indicazioni inedite sia sul movente sia sulla matrice politica dell’affaire Orlandi-Gregori, nei giorni scorsi rilanciata con un’intervista al giudice Ilario Martella, convinto assertore del coinvolgimento dell’Est.
L’ultimatum sulla vita dell’ostaggio
Domanda preliminare: perché il lungo e all’apparenza delirante appello letto, per oltre 20 minuti, da una voce maschile artefatta, finta mediorientale, che sviluppava richieste già note come lo «scambio» Emanuela-Agca, fu preso sul serio? Una prima risposta viene dal contesto. Il 17 luglio 1983, neanche un mese dopo la scomparsa (22 giugno), il caso Orlandi era su tutte le prime pagine: il cosiddetto «Americano» imperversava con i suoi aut-aut telefonici, il magistrato antiterrorismo Domenico Sica aveva assunto d’imperio le indagini, Karol Wojtyla aveva già lanciato due trepidanti appelli e l’Italia tratteneva il fiato a causa dell‘ultimatum del 20 luglio. In quel frangente, salvare Emanuela era l’imperativo categorico: ovvio che un nastro del genere lo si prendesse sul serio. Le richieste contenute nel lato A furono soddisfatte a stretto giro. Il giorno seguente, 18 luglio 1983, il Vaticano concesse ai rapitori la «linea riservata», alla quale accedere tramite il codice 158; il 19 luglio l’«Americano» (Marco Accetti, secondo tre perizie foniche) parlò con il Segretario di Stato Casaroli, nella famosa telefonata di cui si conosce solo la prima parte, quella con una suorina terrorizzata e balbettante; e infine, il 20 luglio, l’ultimatum sulla vita dell’ostaggio fu prorogato, proprio per effetto dei negoziati in corso.
«La voce è di Marco Accetti»
Ed eccoci alla seconda domanda. Di chi era la voce? Tanti in verità l’hanno intuito da tempo, a cominciare da Pietro Orlandi, che anni fa, in una diretta tv, riconobbe proprio lui, «l’uomo del flauto», nel «portavoce» del 17 luglio 1983. Ma ora c’è l’ufficialità. Una nuova perizia curata dall’ingegner Marco Arcuri, esperto di informatica e di IA, lo stesso consulente che la scorsa primavera ha fissato all’86% «il grado di compatibilità» tra le voci di Accetti e dell’Americano, certifica (tramite il confronto tra alcune parole chiave ripetute dall’ex indagato) che anche nel lato A della «cassetta delle sevizie» la voce è quella del fotografo oggi 68enne, e che l’affidabilità del responso è molto alta, al riparo da errori .
L’analisi tecnica
«L’analisi fonica comparativa – spiega l’ingegnere Arcuri, che lavora in pool con l’avvocato difensore di Accetti, Giancarlo Germani – evidenzia in primo luogo una durata identica delle sillabe. Inoltre, i valori medi della frequenza fondamentale di entrambe le voci, il finto turco e Accetti, presentano forte coerenza, con una variazione media inferiore al 2%. Anche le analisi formantiche, ovvero le principali frequenze di un timbro vocale, hanno mostrato totale corrispondenza. Per non parlare del timbro, marcatamente somigliante sia nella densità spettrale sia nella distribuzione delle armoniche». Risultato: «Compatibilità al 78%», ben oltre la soglia del 55, considerata di «compatibilità minima».
Una prima conclusione
Marco Accetti, l’equivoco personaggio che si è autoaccusato nel 2013, figlio di massone, sedicente artista e cultore di esoterismo, doppiogiochista incallito, vicino ad ambienti di destra pur professandosi «libertario e anticlericale», cresciuto in prestigiose scuole cattoliche come il San Giuseppe De Merode, il cui direttore, monsignor Pierluigi Celata, fu coinvolto nelle manovre dello 007 Pazienza per defenestrare il capo dello Ior Marcinkus, si conferma dunque sulla scena. Sempre di più. L’ex pm Giancarlo Capaldo, d’altronde, non esclude si tratti di un serial killer. Fatto è che l’ombra di Accetti incombe, un po’ ovunque. Al punto che molti si chiedono perché sia ancora in stato di libertà, nella sua casa al Nomentano, nonostante i pesanti indizi a suo carico: dal possesso del flauto riconosciuto come quello di Emanuela al ruolo ormai acclarato di telefonista, dalla presenza dell’allora giovanissima moglie a Boston, città da cui partirono comunicati autentici, al mai chiarito omicidio stradale del piccolo Josè Garramon (dicembre 1983), fino al pieno coinvolgimento nel giallo collegato di Katy Skerl (la 17enne uccisa nel gennaio 1984), nel quale è sospettato di aver rubato la bara, se non di altre peggiori condotte criminali.
L’appello del lato A: strafalcioni voluti
E adesso vediamo il testo letto da Accetti con voce posticcia, fingendosi turco, tra rumori di sottofondo continui e il fruscio delle pagine sfogliate mentre la lettura va avanti. La prosa a tratti è sgrammaticata, alcuni strafalcioni evidenti, ma anche qui vale il discorso fatto per la facciata B: quello di una scelta voluta, depistante, mirata a disorientare l’opinione pubblica e accreditare all’esterno l’idea di mitomani o buontemponi, con l’obiettivo di agevolare – come poi avvenne – lo svolgimento senza troppe pressioni delle trattative riservate con le più alte cariche italiane e vaticane.
Ecco il testo integrale
L’appello-proclama chiarisce subito l’interesse dei sequestratori a tenere alta la mediaticità del caso. «Rendiamo noto alla pubblica opinione come gli inquirenti della Repubblica italiana, adducendo distorsioni economiche alla nostra richiesta, non riportino la minima conoscenza dei nostri presunti movimenti nel quadro della malavita organizzata italiana, dimostrando una anomalia nei confronti della tradizione informativa. Questo trova spiegazioni nella nostra estraneità ad ogni settore della vita pubblica e non pubblica italiana. La richiesta di prova del lunedì 17 giugno (qui ci si riferisce alla domanda fatta alla famiglia su dove fosse stata Emanuela quella sera, ndr) è l’esempio principale dei tentativi di copertura delle nostre reali intenzioni. Un marchingegno per posteriormente screditare la prova stessa, in quanto è risaputo superiore ai 5 giorni il periodo di controllo (ci si riferisce ai pedinamenti di Emanuela svolti prima del sequestro, ndr) nei confronti della prescelta persona…»
«Manca la volontà di consegna di Agca»
La rivendicazione continua con un biasimo alla Santa Sede per la mancata trasparenza nelle comunicazioni ai media: «Rileviamo come proseguendo l’opera di copertura la diplomazia vaticana non concede il beneplacito di menzionare la conferma delle informazioni ricevute sui trascorsi della cittadina Emanuela Orlandi e inoltre non è data giusta lettura volutamente al periodo anteriore alla presentazione della richiesta, con l’attesa dell’appello precipuo del capo di stato Giovanni Paolo II. Il documento allegato al comunicato di piazza San Pietro (qui ci si riferisce al plico deposto il 14 luglio 19893, tre giorni prima di via della Dataria, sotto il colonnato del Bernini, fatto sparire da agenti di sicurezza, ndr) attesta il nostro disappunto per disinformazione e la mancanza completa di ogni minimo atto di volontà in riferimento alla consegna del detenuto Ali Mehmet Agca. La risposta al primo appello non costituiva unicamente nella fotocopia…»
«Le prove che forniamo su Emanuela»
Eccoci così a un passaggio cruciale: l’elencazione di riscontri per provare che chi parla è effettivamente in possesso di Emanuela (o in contatto con i veri rapitori). «Allegavamo telefonicamente delle informazioni sui trascorsi della ragazza – prosegue Marco Accetti alterando il timbro, ma la cui voce è riconoscibile anche a orecchio nudo – richieste insieme alla prova del lunedì: la cittadina Emanuela Orlandi ha vissuto un annodella sua infanzia in territorio italiano (circostanza vera, in zona Aurelio), la sorella maggiore Natalina usufruiva di occhiali per vista; da un largo periodo ha interrotto l’uso; il sacerdote prescelto per celebrare il matrimonio del 10 settembre 1983 è un conoscente di famiglia…» Dettagli veri. Che in quei giorni, a neanche un mese dalla scomparsa, non erano trapelati.
«Parleremo solo con Casaroli»
Siamo alla parte finale, quella in cui il portavoce pone sul tavolo la richiesta numero 1: scarcerazione immediata del terrorista turco. «Con questo ultimo tentativo di disinformazione – aggiunge la “voce” dei sequestratori – interrompiamo ogni rapporto diretto che non rientri nell’ambito della consegna del detenuto Ali Mehmet Agca. In osservanza alla imminenza dello scadere del tempo programmato per il bilancio interamente nullo (qui ci si riferisce all’ultimatum del 20 luglio per lo scambio attentatore-Emanuela, ndr) ci troviamo a mutare la considerazione nella giovane età della cittadina Orlandi e deliberiamo di adoperare la nostra ansia di verifica permettendo il riscontro valido fotografico della vita della cittadina Orlandi Emanuela in contraccambio del primo effettivo apporto in direzione della consegna del detenuto Ali Mehmet Agca (qui sembra promettere l’invio di una foto dell’ostaggio, se la pratica viene aperta, ndr). Potrà essere condotta al suo stato legittimo in contropartita della consegna del detenuto Agca. Auspichiamo ulteriormente risposta ufficiale dalla segreteria vaticana per la predisposizione della linea diretta richiesta. Comunicheremo esclusivamente al Segretario di Stato cardinale Casaroli l’iter tecnico da seguire per l’uscita territoriale di Ali Mehmet Agca…» Le condizioni sono poste, insomma: devono essere i vertici della Chiesa a occuparsi personalmente dello scambio.
«Così perveniamo al meccanismo della grazia»
Il testo, per quanto sconnesso e volutamente ridondante, dimostra piena consapevolezza dei passaggi politici e giudiziari: l’attentatore di piazza San Pietro, dopo essere stato condannato all’ergastolo nel luglio 1981, non aveva presentato ricorso. I rapitori di Emanuela lo sanno. «Chiediamo la consegna di Agca indipendentemente dalla sua presa di posizione pubblica […].Il detenuto Agca è fuori dal vincolo della magistratura italiana. La sua sentenza è inappellabile. Attendendo due anni la conferma del suo non ricorso in appello, siamo pervenuti al meccanismo della grazia».
«Sotto l’egida della considerazione umanitaria»
Il messaggio è criptico ma chi deve intendere capisce, tra fumisterie e giri di parole: il papa è chiamato a premere su Pertini per ottenere la grazia presidenziale, al di là che il turco la chieda o no. «Nell’ipotesi di rigetto della sottoscrizione da parte del detenuto Agca della scarcerazione e sua consegna ci indirizziamo nuovamente al capo di stato Giovanni Paolo II al fine che domandi alla espressione più alta dello Stato italiano ogni intervento la cui natura si pone esclusivamente sotto l’egida della considerazione umanitaria e che permetta la restituzione immediata della cittadina Orlandi Emanuela alla vita civile». Più chiaro di così: liberate Agca e l’ostaggio torna a casa (di Mirella si sarebbe cominciato a parlare solo il mese successivo), dice il finto turco, prefigurando una trattativa che in effetti si svilupperà nell’autunno 1983, quando Pertini sarà sul punto di firmare il provvedimento di grazia, ma l’iter si bloccherà o per il mancato invio delle «prova in vita» o per l’intervenuta uccisione di Mirella Gregori.
Ricatto al Papa: quale movente?
Tiriamo il fiato. Che angoscia, povere bambine. Il lato A della «cassetta delle sevizie» ci ha portati lontano. Manca però il tassello più importante ai fini della lettura dell’accaduto: come interpretare politicamente la sporca manovra ordita quasi mezzo secolo fa sulla pelle di anime innocenti? Qual era, al riparo dagli «effetti speciali» accesi ad arte per depistare i giornali, il reale obiettivo dei rapitori? Quale il movente sul piano della geopolitica, caratterizzata a quei tempi dal feroce scontro Est-Ovest nell’ambito della Guerra Fredda, con il primo papa polacco della storia nel ruolo di frontman? Le domande delle cento pistole sono queste e su di esse a breve dovrà esercitarsi la commissione bicamerale d’inchiesta, alla ripresa dei lavori. Ma qualche anticipazione di scenario, anche alla luce del recente rilancio della «pista rossa» da parte del giudice Ilario Martella (autore del libro «Intrigo internazionale»), è possibile.
La pista di Martella: «Fu la Stasi»
Per il giudice che fu artefice della «pista bulgara» sui mandanti dell’attentato del 13 maggio 1981 non ci sono dubbi: «l’interdipendenza» tra l’azione di Agca «armato a Mosca» e il doppio sequestro fu «assoluta». Emanuela e Mirella furono rapite in seguito a «un accordo ultra segreto tra il capo dei servizi bulgari e il capo della Stasi» per creare «un’operazione di depistaggio e distrazione di massa» nel momento in cui egli stesso, nelle sue indagini, stava cercando «di portare alla condanna non il solo Agca ma anche i suoi complici, esponendo le gravi responsabilità dei bulgari Antonov, Ajvazov e altri» (il processo, nell’86, si concluse però con sette assoluzioni per insufficienza di prove). In questo quadro, le quindicenni sarebbero state prese («e uccise») dalla Stasi, con l’ausilio della banda della Magliana, mentre Accetti non viene preso in considerazione. Scenario nel quale almeno tre elementi meriterebbero approfondimenti. Primo: come supportare tale ricostruzione, in assenza di qualsiasi riscontro sulla partecipazione al doppio sequestro di agenti della Germania dell’Est, bulgari o direttamente del Kgb. Secondo: come spiegare che un’organizzazione come la Stasi, figlia del più ortodosso regime comunista, scelga di allearsi con i Lupi grigi, turchi, filo occidentali, di estrema destra. E da ultimo, analogamente, perché la banda della Magliana, anch’essa radicata a destra, decida di fare il giocodelle «barbe finte» guidate dal Cremlino.
Accetti e il «ganglio» filo-Casaroli
Lo scenario illustrato da Marco Accetti nel 2013, quando si autodenunciò in Procura e fu indagato per duplice sequestro di persona, è anch’esso di natura politica, ma con (presunte) complicità di tipo diverso. «Partecipai al rapimento delle ragazze per conto di un gruppo composto da elementi della malavita, dei servizi segreti e di ambienti ecclesiastici, soprattutto al livello del Consiglio per gli affari pubblici della Chiesa, sostanzialmente con due obiettivi – ha verbalizzato l’uomo del flauto – Il primo fu salvaguardare il dialogo con l’Est, in sintonia con la Ostpolitik del cardinale Casaroli e in dissenso con la linea fortemente anticomunista di Giovanni Paolo II, illudendo Agca che sarebbe stato liberato tramite lo scambio e inducendolo così a ritrattare le sue accuse ai bulgari, come poi avvenne». Secondo obiettivo, «tenere sotto pressione i vertici della Chiesa per giungere, tramite trattative riservate, alla defenestrazione di monsignor Marcinkus, per i noti fatti dello Ior». È il cosiddetto «ganglio», un nucleo di potere occulto al quale, secondo Accetti, collaborarono elementi dei servizi occidentali e anche un paio di «infiltrati», a quanto pare ragazze, della Stasi. Versione credibile? Il sequestro andrebbe dunque «accollato» ad ambienti clericali complottisti di ispirazione «progressista»?
Un’azione (targata servizi) di marca occidentale
Attenzione. Come in qualsiasi thriller ad alta intensità, la sorpresa è in fondo. Perché c’è anche – e si sta consolidando – una terza e ulteriore lettura su movente e possibili responsabili. Come escludere, infatti, che Accetti, allorché uscì allo scoperto nel 2013, guarda caso un attimo dopo l’elezione di un papa rinnovatore come Bergoglio, chiamando in causa il «ganglio» progressista abbia inteso compiere l’ultimo raffinato depistaggio? Per salvarsi la vita «l’uomo del flauto» non potrebbe aver riferito a grandi linee uno scenario credibile, ma mutando qualche «casella» nel racconto per non consentire l’individuazione dei protagonisti? In questo quadro, si spiega l’ostinazione del reo confesso nel non fare i nomi dei complici (paura) e si potrebbe ipotizzare il coinvolgimento nell’azione Orlandi-Gregori di ambienti diversi (gli stessi, ad esempio, che perorarono la sepoltura di De Pedis a Sant’Apollinare) e di quei servizi segreti (Sismi e Sisde) che nel dicembre 1981 andarono a trovare Agca in carcere a Rebibbia nell’ambito della famosa «imbeccata» (il presunto patto con il turco, in cambio della libertà, per accusare l’Est come mandante dell’attentato).
La parola a chi indaga
Il materiale e le novità non mancano, come si vede. Il lato A della «cassetta delle sevizie» fornisce più spunti del lato B, evidentemente uno «specchietto per le allodole». Viaggio davvero concluso. Toccherà adesso alla commissione parlamentare tentare una sintesi, in attesa degli sviluppi delle inchieste aperte presso la Procura di Roma (pm Luciani) e in Vaticano (procuratore Diddi).