Alberto Bombassei: oggi non sarebbe possibile fare quello che abbiamo fatto partendo quasi da zero io, mio fratello, mio padre e mio zio

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bombasseiPartiamo da qui per riconoscere un dato di fondo: in Italia, lo spaesamento non riguarda solo i perdenti della globalizzazione. Coinvolge anche i vincenti. Bombassei di certo appartiene a quest’ultima categoria. Brembo nel 2007 fatturava 911,9 milioni di euro, nel 2017 ha sfiorato i 2,5 miliardi: un percorso divergente rispetto a quello dell’Italia.

I Bombassei hanno cominciato da zero, nella sterminata distesa operaia degli anni Cinquanta. Negli anni Settanta la Fiat nemmeno si degnava di riceverli, ma le commesse tedesche, fondate su lunghe discussioni con gli ingegneri della BMW, garantivano una crescita impetuosa. Bombassei doveva rivolgersi ai navigators dell’epoca, le antenne cattoliche: «Avevamo pacchi alti così di cambiali e io, certe sere, facevo il giro dei parroci della Val Brembana e della Val Seriana per farmi segnalare i ragazzi più bravi e volenterosi» .

Il protagonista di questa storia, un grande vincitore italiano dell’ultima fase della globalizzazione, ha perso fede nel motore essenziale dell’Italia, nel dato centrale della coesione nazionale: la mobilità sociale attraverso la cultura del lavoro, che ha permesso la scalata dalla subfornitura all’impresa nei mercati internazionali. Così, è vero che non si può tornare indietro, perché il mondo non si ferma ad aspettare l’Italia. Ma è solo una parte della verità. Perché non si può nemmeno andare avanti. Nessun italiano può venire dal nulla, diventare Bombassei, passare in trent’anni da 300 a 10 mila dipendenti.

Si consuma questo cambiamento sociale, questo dramma. Abbiamo capito che è un dramma? È lecito dubitarne. Nel mentre, là fuori succede qualcosa di essenziale. Come riconosce lo stesso Bombassei, l’Italia e gli altri paesi europei non incidono nel negoziato globale sugli standard. Le trasformazioni del mercato dell’auto, che per l’Italia e i grandi paesi europei è ancora industria decisiva, ci colgono impreparati, disarmati, fino all’autolimitazione della sovranità. Ci innamoriamo di tecnologie che non possediamo, come l’elettrico: lo stesso Bombassei, presidente della Fondazione Italia-Cina, dice chiaramente che facciamo un favore ai cinesi. Quando gli standard europei sono al centro di conflitti geopolitici, come avvenuto con il diesel, tendiamo ad autoflagellarci. Non cogliamo la profondità delle catene del valore coinvolte, la relativa mobilità delle catene asiatiche e il vincolo sociale che avvolge le nostre. Così come l’automobile ha trascinato il debole ritorno alla crescita degli ultimi anni, la crisi dell’automobile segna la nuova recessione italiana. Senza un Sergio Marchionne in grado di mettere ordine o di dare ordini.

L’Italia è abituata a stare al mondo solo in termini economici e stazionari. Convinta che essere «seconda manifattura d’Europa» sia il dato immutabile e autosufficiente su cui erigere il mestiere di vivere. Come nella riflessione di Dahrendorf sulla fine del secolo socialdemocratico, questo processo è figlio di un successo. Viene dalla potenza della nostra ricostruzione, che in un tempo breve di storia italiana ha unito il mito e la realtà. La sua nostalgia è ragionevole e giustificata, se pensiamo a uomini come Enrico Mattei, Raffaele Mattioli, Ezio Vanoni. Hanno avuto una vera coscienza unitaria perché il Sud e l’uscita dalla miseria li coinvolgevano veramente, non per omaggi d’occasione. Hanno costruito istituzioni in grado di durare nel tempo. Meritano di essere ricordati e ammirati, anche perché vittime di tragiche fatalità (Vanoni), omicidi (Mattei), ingratitudini (Mattioli).

La forza industriale, grazie ai corpi intermedi e ai partiti politici, ha costruito la nostra coesione nazionale. L’Italia del dopoguerra non ha conosciuto altro metodo di funzionamento, se non questo equilibrio basato su una precisa situazione internazionale. Grande impeto, poi convertito in nostalgia. Forse è impossibile che, senza i tasselli della guerra fredda, la coesione nazionale possa essere mantenuta e l’apparato industriale salvaguardato. Occorre esserne consapevoli. Ogni strategia per il capitalismo italiano è per questo obbligata ad allargare lo sguardo. Soprattutto perché l’Italia avanza indifesa in un’epoca in cui la sicurezza rivendica con violenza il suo primato sull’economia, per via della guerra tecnologica tra Cina e Stati Uniti.

Il dato fondamentale della guerra tecnologica tra i due protagonisti è l’allargamento del concetto di «sicurezza nazionale», che comporta una torsione dell’economia verso la protezione. Un processo rischioso e incerto, soprattutto per paesi come il nostro che si muovono in ordine sparso. Le infrastrutture materiali sono rese più vulnerabili dalla loro dimensione digitale e dal potere della connettività, pertanto o la digitalizzazione cesserà la sua corsa, in una recessione tecnologica, oppure Cina e Stati Uniti utilizzeranno questo processo per ripensare tutte le infrastrutture sotto una categoria onnicomprensiva e confusa di sicurezza à la carte. Con spartizione in sfere di influenza, con incidenti più o meno aperti da rilanciare in altri tavoli.

In questo senso, le vie della seta sono vie digitali, perché lo sono nello sguardo della Cina e degli Stati Uniti. Puerile è l’idea che i paesi europei, mettendosi insieme «perché bisogna essere grandi per contare nel mondo», possano inserirsi in questo processo in automatico, perché in esso conta il peso della sicurezza nella vita di chi vuole essere una potenza, e non solamente un mercato. Conta la disponibilità a combattere e sacrificarsi per i propri obiettivi, con numerosi whatever it takes. Il Partito comunista cinese non accetterà mai di recidere veramente i cordoni sanitari tra il Partito, lo Stato, le imprese nel loro «capitalismo di alleanze». Gli Stati Uniti non accetteranno mai un eventuale argomento per cui imprese della vorticosa ascesa cinese nell’innovazione globale come Huawei e Zte non pongano problemi di sicurezza, perché dal loro punto di vista li pongono, ufficialmente almeno dal 2011-12.

Il sistema economico europeo non può essere immune dai raffreddori di Pechino, perché l’Europa è l’area mondiale più sensibile all’impatto dell’economia cinese, con un rischio di affossamento. Insieme, un paese dipendente dagli Stati Uniti non può essere alleato cinese nella costruzione di discontinuità tecnologiche alternative a quelle americane, né può elaborare paradigmi alternativi. Lo spazio d’azione dell’Italia è dunque limitato: possiamo scegliere se aderire alla posizione statunitense tout court oppure scegliere di non scegliere e aspettare l’evoluzione della competizione tra Stati Uniti e Cina nel prossimo decennio.

Il limite italiano, più che nelle norme, sta allora nella capacità concettuale, nell’orizzonte negoziale, nel modo di stare al mondo. La normativa sui poteri speciali (golden power), nella sua evoluzione dal 2012 al 2017, rappresenta sia un caso positivo di collaborazione tra le istituzioni italiane sia un’illustrazione di questo disorientamento. La sua storia geopolitica contiene un’interessante ironia. La predisposizione di uno strumentario legislativo con l’ambizione di garantire allo stesso tempo l’attrazione degli investimenti (attraverso un comportamento chiaro e prevedibile) e la protezione degli asset italiani, spostando la questione dalla proprietà alle industrie di riferimento, nasce per corrispondere alle regole europee sulla concorrenza.

La protezione dell’Unione Europea dall’esterno (Cina, ma anche paesi del Golfo, Russia, Giappone, Turchia, Stati Uniti) doveva concorrere alla creazione di realtà industriali comuni, avvicinando i mercati e aumentando la capacità di penetrazione all’esterno. Questa ideologia richiedeva dunque una soggettività, o perlomeno un soggetto. In assenza di tali elementi, gli strumenti di scrutinio degli investimenti hanno dato luogo, come mostra la casistica, a occasioni per pesare gli asset italiani rispetto alla questione francese, avendo un’applicazione limitata sugli investimenti cinesi, in particolare sulla catena delle forniture. Per esempio, un controllo formale degli investimenti non si applica nell’immediato se un investitore cinese apre un centro di ricerca che sigla accordi sulle telecomunicazioni e sull’analisi dei dati con attori pubblici italiani: questo è il tema di Huawei, in Sardegna e in altri territori italiani.

ll golden power non è uno strumento nato per tali scopi ma, per esempio, per scrutinare l’ingresso significativo di un’azienda cinese nelle società energetiche italiane, e per questo viene rimodulato al cambiare delle condizioni geopolitiche: ogni mossa sul modello dell’accordo tra State Grid e Cdp Reti, per esempio, oggi riceverebbe ampia attenzione. La decisione dello Stato riguarda cosa sia difesa e sicurezza; cosa sia alta intensità tecnologica; e di conseguenza, cosa sia «minaccia di grave pregiudizio per gli interessi essenziali della difesa e della sicurezza nazionale».

Stabilire dove porre il confine è difficile, perché l’intensità tecnologica sulle infrastrutture cambia le carte in gioco e consente diverse interpretazioni. Si modula la stessa capacità decisionale secondo il peso geopolitico: gli Stati Uniti, per esempio, possono dire che le costruzioni in vetro e acciaio della veneta Permasteelisa (che ha lavorato tra l’altro alla nuova sede Apple a Cupertino, ed è parte del gruppo giapponese Lixil) pongano un rischio di sicurezza in mano cinese, e quindi bloccarne la vendita a un gruppo di Shenzen, Grandland, alla fine del 2018. I motivi possono essere molteplici, ma il segnale non è di poco conto. Gli apparati americani non vogliono nemmeno che tra i materiali di costruzione e tra i rivestimenti degli spazi fisici di un certo mondo a stelle e strisce vi siano interstizi di «caratteristiche cinesi».

Il dato di fondo è questo: gli Stati Uniti e la Cina possono dire che «tutto è sicurezza», mentre l’Italia non può farlo. Sarebbe velleitario nonché inutile. L’unica strategia realistica per l’Italia è un accordo con gli Stati Uniti su ciò che per noi sia realmente possibile fare coi cinesi. Ma ci è difficile chiarire la posta in gioco. È doloroso adattarci a un mondo securitario in cui non ci riconosciamo e che non diventerà irenico per volontà italiana né «europea».

Alla luce di questo scenario complessivo, cerchiamo di afferrare l’Italia della grande impresa attraverso due fotografie, per rimarcare le debolezze di lungo corso e le strategie possibili.

La prima fotografia è la lettera di John Elkann ai dipendenti Fca, in cui scrive che le condizioni di Sergio Marchionne «sono purtroppo peggiorate nelle ultime ore e non gli permetteranno di rientrare». Da tempo la strategia del gruppo si è discostata dalle parole del giovane Leopardi: «Mia patria è l’Italia per la quale ardo d’amore, ringraziando il cielo d’avermi fatto Italiano». Marchionne, senza paura di critiche, vi ha opposto una brusca alternativa: è meglio essere italiani e falliti, o essere internazionali e vivi?

Il grande protagonista del capitalismo italiano dell’inizio di questo secolo ha salvato il gruppo, orientandolo verso gli Stati Uniti, senza riuscire a quadrare il cerchio delle alleanze europee e lasciando aperte molte questioni italiane, a partire dalle aspettative nettamente deluse di Alfa Romeo e degli altri marchi. Allo stesso tempo, con Ferrari, Marchionne ha creato una grande realtà del lusso nel mercato dei capitali, passaggio-capolavoro che gli altri imprenditori del made in Italy non hanno saputo o voluto compiere.

Dopo l’èra Marchionne, il peso dell’Italia negli interessi del gruppo guidato da Elkann sembra destinato a una drastica riduzione. Difficile non cogliere in questo processo un impoverimento tecnologico, oltre che occupazionale. Il destino del gruppo Fca (o meglio, la realizzazione del destino impostato negli anni passati) non sarà per noi una tappa indolore, a partire dalla cessione di Magneti Marelli. Saremo forse ancor più colpiti dalla futura cessione del gigante della robotica industriale Comau, che secondo Bloomberg potrebbe valere tra 1,5 e 2 miliardi di euro. Si tratta di aziende che nell’orizzonte italiano, pur stando nell’orbita di Fca, hanno la dimensione della grande impresa, oltre a un ruolo decisivo in filiere ad alta innovazione. Se e quando Comau giungerà in mani straniere, i discorsi sulle capacità italiane nella robotica industriale potranno finire in soffitta, perché non ci sarà un grande gruppo nazionale in grado di acquisire start-up promettenti e di costituire un punto di riferimento per la ricerca, né vi saranno fondi privati in grado di farlo.

La storia della Repubblica Italiana può essere scritta anche come sequela di appuntamenti perduti con i salti tecnologici: nel nucleare, nell’elettronica, nelle telecomunicazioni, oggi nella cosiddetta quarta rivoluzione industriale. Le ragioni per cui ciò è accaduto sono molteplici, dalle vicende personali alla debolezza organizzativa, dalla sottovalutazione della scienza nelle classi dirigenti all’incertezza delle politiche pubbliche (come, da ultimo, quella relativa ai provvedimenti di Industria 4.0), fino a giungere alla svalutazione del valore sociale della ricerca e del ruolo sociale dei ricercatori.

Anche quel che resta della grande impresa testimonia questa storia, aggiungendo qualche elemento. Pensiamo alle vite parallele di Fincantieri e Finmeccanica-Leonardo. Ma come, siamo nel nuovo millennio, tra poco arriva Industria 6.0 e le aziende cruciali per l’Italia sono ancora dei «corpaccioni» della vecchia storia navale, elettronica, aeronautica controllati dallo Stato? Certo. L’Italia non conta solo perché «sa fare cose che piacciono al mondo, all’ombra dei campanili», come nella frase apocrifa di Carlo Cipolla che farebbe imbestialire il suo autore per le troppe citazioni autocompiaciute. Per smettere di comportarci da caricature, dobbiamo riconoscere che contiamo per il nostro posto nelle grandi catene del valore dell’industria, per le nostre capacità nell’alta tecnologia e nella sicurezza, e su questo ci pesiamo. Perciò, parliamo e parleremo ancora di Fincantieri e Leonardo, dei loro dissidi, della loro collaborazione, della loro capacità di essere prede e predatori, della loro relazione coi francesi. Le loro vicende riportano al nodo irrisolto dopo il tramonto dell’Iri: la costruzione di scuole manageriali, in contatto con la politica eppure in grado di muoversi con autonomia. Fincantieri ha ereditato questa storia manageriale, e la sua prova sarà la successione di Bono con un nuovo nucleo di manager interni. Al contrario, Leonardo ha subìto l’instabilità manageriale, al vertice e sotto il vertice, che ha impoverito i risultati apportati dall’elevata capacità di ricerca del gruppo. Il problema più generale coinvolge la formazione e la «coscienza di classe». Senza una scuola per manager, senza un nucleo complessivo di formazione e resistenza, le aziende italiane non sono «poteri». Quello che resta della grande impresa deve recuperare una prospettiva geopolitica e anzitutto storica, altrimenti non può avere consapevolezza. All’interno di una più complessiva pedagogia nazionale, serve un ritorno della storia d’impresa e della storia industriale. Anche la «gara nello stimarsi a vicenda» delle fondazioni di Fincantieri e Leonardo potrebbe dedicarsi a questa profondità storica perduta dell’impresa italiana.

La consapevolezza storica dovrebbe partorire una strategia di fondo: il «consociativismo tecnologico». Un sostegno unanime dello sviluppo della scienza e della tecnologia, che metta al riparo gli investimenti (troppo scarsi) dalle polemiche politiche. Il consociativismo tecnologico richiede un protagonismo molto diverso delle imprese e dei capitali italiani. Un buon esempio in questo senso è la proposta di Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda, di creare un istituto Fraunhofer italiano della ricerca per l’industria e la manifattura, con il 30% di finanziamento pubblico e il 70% a carico delle imprese. Eppure, simili idee rischiano sempre di cadere nel vuoto, soffocate da altre priorità. In questo, lo Stato e il mercato si abbracciano nei loro fallimenti. La finanza italiana pagherà caro, nel lungo periodo, il ritardo nell’investire in private equity per l’acquisizione di aziende ad alta tecnologia e per favorirne la crescita dimensionale.

Certo, ci sono tante buone ragioni per non scommettere sull’Italia, per far sì che l’Italia pesi esclusivamente per il suo rilievo finanziario. Il contesto degli investimenti non è favorevole, per non parlare della demografia e del rapporto nella spesa pubblica tra previdenza e ricerca. I limiti di certezza che indichiamo nella mappa dei poteri italiani sono ottimi argomenti per non investire. Però vale la domanda che Stefano Firpo, ormai dirigente di lungo corso del ministero dello Sviluppo economico, ha posto in occasione dell’annuncio a Torino degli investimenti di Exor Seeds negli Stati Uniti: «E in Italia quando?» Idealmente, Elkann e gli altri vincitori del capitalismo italiano dell’ultimo decennio dovrebbero alimentare il consociativismo tecnologico con la costituzione di un fondo di investimenti cospicuo (che chiameremo «Fondo Tchou», in memoria di Mario Tchou di Olivetti) per investire nel trasferimento tecnologico e nelle aziende ad alta tecnologia. Anche – perché no? – sfidando le iniziative dei fondi pubblici e parapubblici in materia. L’annuncio del Fondo Tchou potrebbe arrivare quest’anno, al Politecnico di Torino, per celebrare il centosessantesimo anniversario della Regia Scuola di Applicazione per gli Ingegneri, istituita nel 1859.

L’altra fotografia del capitalismo italiano sta in una cifra: 150 miliardi di euro. Nell’ottobre 2018, nel mezzo della discussione autunnale del governo sugli investimenti nazionali e territoriali, incentrata su numeri molto inferiori e ulteriormente ridotti in seguito, il presidente Gian Maria Gros-Pietro ha sintetizzato così il contributo di Intesa Sanpaolo agli investimenti, in soli tre anni. Possiamo aggiungervi i primati rivendicati nel Piano di impresa 2018-2021 (primato europeo per profilo di rischio e per efficienza, primato italiano in tutti i prodotti bancari) e l’ambizione di «diventare un punto di riferimento per la società». Nel concreto vuol dire anche, con l’estensione dell’iniziativa «Cibo e riparo per i bisognosi», il finanziamento di 10 mila pasti al giorno, 6 mila posti letto al mese, 3 mila medicine e vestiti al mese. Nel Piano di impresa 2018-2021 non mancano ampi riferimenti alle prospettive di crescita nella gestione del risparmio in Cina, attraverso i fondi Yi Tsai e Penghua. Intesa Sanpaolo oggi ha una posizione ben più rilevante di Mediobanca in quel che resta del «sistema» italiano, anche se – come del resto Mediobanca stessa, ieri e oggi – non ha saputo dare un impulso sufficiente per promuovere la crescita dimensionale delle imprese.

Nello scenario attuale, Intesa Sanpaolo è un gruppo bancario robusto, ma si muove in un settore in cui non può esservi splendid isolation, altrimenti la banca che rivendica i propri primati viene tirata per la giacchetta su ogni bubbone. Con il peggioramento delle condizioni economiche italiane e – nel medio termine – con la recessione globale, la questione bancaria rimane l’evidente elemento di vulnerabilità dell’Italia. In questo, la debolezza negoziale dell’Italia nel quadrilatero Berlino-Francoforte-Parigi-Bruxelles costituisce un rischio conclamato. È un’illusione credere che tale debolezza possa essere superata da canali privilegiati con gli Stati Uniti, o da fantomatici fondi cinesi o di altri paesi: di simili effetti non ci sono segnali né nella dinamica dei titoli di Stato italiani né nelle contrattazioni sulle regole bancarie. Cambiano i toni dei governi, ma nel negoziato europeo gli italiani continuano ad accumulare fronti di conflitto, mentre si avvicina l’uscita di Draghi.

Il rapporto con la Francia illustra questa tattica, che rischia di essere pagata nelle regole bancarie e nella discussione sui prossimi salvataggi. Il risultato non sarà mai un’apocalisse italiana, altamente improbabile per le cinghie di trasmissione del sistema finanziario italo-francese. Somiglierà piuttosto a una stagnazione puntellata di occhiuti ostacoli e dannose isterie.

L’altro lato dei 150 miliardi di Intesa Sanpaolo riporta a una debolezza strutturale italiana: l’incapacità di realizzare investimenti, e in particolare investimenti in infrastrutture. Ormai da anni, se non da decenni, ogni governo che si alterna alla guida dell’Italia rivendica l’importanza delle infrastrutture. Siamo imprigionati nel film Il giorno della marmotta, in cui Bill Murray vive all’infinito la stessa giornata: di mattina gli omaggi alle piccole opere che servono ai nostri Comuni, a pranzo i riferimenti alle autostrade digitali, all’ora del tè la proclamazione di fondi da sbloccare con opere immediatamente cantierabili, a cena l’annuncio di un vasto piano di valorizzazione degli immobili perché abbiamo un grande patrimonio pubblico da vendere. Gli annunci sono puntualmente smentiti da una realtà ostinata e contraria. Il 2018 si è chiuso con la crisi di importanti attori nazionali delle costruzioni come Astaldi, Condotte, Trevi. L’emergenza degli investimenti e dell’attuazione delle politiche è sempre più acuta. Lo Stato esiste se, nelle sue articolazioni e nel suo rapporto coi privati, sa costruire, monitorare, riparare infrastrutture. Lo Stato italiano disarticolato, che peraltro affronta il fallimento della costruzione politica delle Regioni con uno sgangherato processo di disgregazione dell’unità nazionale, non sembra in grado di svolgere questo compito. Di certo non lo è nelle risorse umane e nei progetti.

La funzione progettuale è stata delegata a una corsa disperata per interposta persona, svolta dalle società di consulenza. Fate un giro in un ministero o in una Regione prima della scadenza dei fondi europei, momento che ormai somiglia a una categoria dell’anima. Invece di generare sbocchi occupazionali per i giovani, invece di plasmare istituzioni con una coscienza di corpo e di servizio, abbiamo generato un vuoto (spesso anche nell’indebolita grande impresa), riempito all’occasione dalle truppe delle società di consulenza americane. Un andazzo inutile. In questo modo accettiamo di vivere in un limbo, in cui nessuna questione «strutturale» sarà affrontata, ma solo dichiarata e poi esternalizzata alla scadenza, senza che da tale processo si possa apprendere alcunché.

Il difetto e il ritardo nell’attuazione si conferma la questione essenziale della politica italiana. Si ripropone con regolarità, mentre cambiano le stagioni, i volti, le dichiarazioni. Si riflette in ogni ambito della vita economica del paese. Per affrontarlo, si potrebbe procedere così, con una soluzione drastica: il capo dello Stato dovrebbe accompagnare la firma di ogni decreto legge con un messaggio sulla legislazione secondaria che esso implica. In un video rivolto ai cittadini, senza paura di annoiarli, il presidente della Repubblica dovrebbe indicare i decreti attuativi contenuti nella misura da lui firmata e richiamare tutte le autorità coinvolte nell’attuazione. Allo stesso tempo, presso il Quirinale andrebbe costituita una struttura deputata all’attuazione delle politiche, perché la distanza tra annunci e realtà costituisce un rischio democratico, di divaricazione della rappresentanza, di dissoluzione dell’unità della nazione. Altrimenti potremmo fare un bel Consiglio di sicurezza nazionale e dopo alcuni anni, mentre qualcuno bombarda la Libia, staremo ancora ad aspettare il suo quinto decreto attuativo.

Due spunti del 2018 indicano alcune prospettive del futuro, per un’economia che si depoliticizza e si ripoliticizza. Un doppio movimento che solo in superficie sembra contraddittorio.

Il primo spunto viene dal saggio di Giuseppe Berta per l’Annuario del lavoro 2018, sulla perdita della bussola da parte di Confindustria. Un commento molto severo, da parte di un profondo conoscitore dell’economia e dell’industria italiana. Il protagonismo di Assolombarda potrebbe portare a un cambio dei rapporti di forza nella rappresentanza imprenditoriale, e quindi un esercizio di maturità della «seconda manifattura d’Europa», troppo a lungo ritardato. Invece di subire ogni settimana la minaccia del governo di ritirare le partecipate dello Stato da Confindustria, le imprese medie e intermedie potrebbero contrattaccare in casa propria. Dovrebbero essere gli imprenditori a dire che non vogliono nella loro associazione le partecipate statali, perché hanno interessi diversi ed è tempo di separarsi. Costruirebbero un’associazione più snella, più libera, forse più efficace.

A questa depoliticizzazione di Confindustria può corrispondere un ritorno della politica dove le compete, attraverso l’ascesa di un politico al ministero dell’Economia e delle Finanze. Il governo Conte è nato anche rifiutando l’invito di Sergio Mattarella, che nella complicata trattativa di fine maggio aveva «chiesto, per quel ministero, l’indicazione di un autorevole esponente politico della maggioranza». Quello specifico passaggio è stato dimenticato, nascosto da altri particolari, ma rimane importante in ogni vera strategia per l’Italia. Il nostro paese, se mettiamo tra parentesi il caso particolare di Giulio Tremonti, non ha mai avuto un ministro politico a via XX Settembre dalla creazione del ministero dell’Economia e delle Finanze nella sua forma attuale. È un altro carattere adolescenziale del nostro stare al mondo. Nel contesto internazionale e sul piano interno, questa è una debolezza strutturale di un’Italia che ciclicamente, e ironicamente, si incarta nella polemica tra tecnica e politica. Nella rinuncia dei partiti (con l’eccezione leghista) a formare personale politico, le forze politiche non mettono la faccia nella gestione della principale macchina dello Stato. In questo modo, nei vari governi, si crea un continuo scaricabarile delle responsabilità. Nel negoziato europeo, i politici francesi e tedeschi si confrontano con il solito tecnico scelto dagli italiani. In futuro, l’uscita dallo stato di minorità passerà anche per un politico sulla scrivania di Quintino Sella. Altrimenti, con la guerra tecnologica tra Washington e Pechino in corso, potrebbe occuparla un militare.

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