Per alcuni espandersi è un obbligo. Tra le imprese italiane, grandi o piccole, solo quelle che hanno puntato sull’estero sono riuscite negli ultimi anni a crescere. Ma c’è anche un settore, quello finanziario, che alla crisi ha risposto invece con la strategia inversa. Difensiva: accorciare la linea del fronte. Una «rifocalizzazione selettiva», definizione della società di consulenza Kpmg, che ha portato gli istituti tricolori ad abbandonare alcuni mercati aggrediti non più di dieci anni fa. E che non sembra ancora terminata. A gennaio Intesa Sanpaolo ha ceduto la controllata Ucraina Pravex-Bank, uscendo dal Paese. Come vorrebbe fare anche Unicredit, che ha avviato le trattative per liberarsi di Ukrsotsbank, e sarebbe la sesta dismissione in Est Europa. Mentre il Banco Popolare, con la fresca cessione di Bp Croatia, è arrivato a quota quattro. Nel complesso tredici cessioni, completate o annunciate. La marcia indietro rispetto alle 33 acquisizioni che le banche italiane hanno messo a segno oltre confine tra il 2000 e il 2008. Con logiche diverse, come spiega Giuseppe Latorre, partner di Kpmg responsabile del ramo Corporate finance: «Per i grandi istituti come Intesa e Unicredit si trattava di raggiungere una dimensione europea, tale da competere con i big stranieri. Per quelli più piccoli come il Banco Popolare, o piccoli come Veneto Banca, di seguire le imprese del territorio nel loro processo di espansione». Secoli fa, almeno nei calendari dell’economia globale. La recessione ha rivelato che alcuni mercati dell’Est erano molto più fragili del previsto. Le nuove regole di Basilea 3 hanno spostato il focus sulla pulizia dei bilanci. «Intesa e Unicredit allora si stanno concentrando nei territori in cui hanno evidenti vantaggi competitivi», continua Latorre. La prima ha lasciato l’Ucraina, con una minusvalenza superiore ai 700 milioni di euro. La seconda il Kazakistan, rimettendoci quasi un miliardo, e i Paesi Baltici. L’istituto diretto da Federico Ghizzoni resta ancora il primo operatore per asset in Europa Centro-orientale. E secondo Latorre il bilancio dell’espansione è comunque positivo: «Grazie alla presenza su mercati in crescita come Polonia, Turchia e Repubblica Ceca, la banca è riuscita a superare meglio la crisi delle attività italiane». Nel caso del Banco Popolare, invece, la ritirata è più decisa, l’obiettivo focalizzare le attività sul core business domestico. Di certo, sulla mappa della finanza mondiale le bandierine italiane si sono fatte più rare. E il ridimensionamento minaccia di penalizzare anche le nostre imprese esportatrici. Poter contare su un soggetto finanziario “amico”, all’estero, è un vantaggio per le aziende, nella gestione di investimenti, dei flussi di cassa, dei rischi di credito e di cambio. D’altra parte, spiega Latorre, in questo momento le priorità per le banche sono altre: «Pulizia dei bilanci e recupero della redditività». Una strategia «difensiva» che nel medio periodo rischia però di penalizzare anche loro. Perché per il Pil italiano le prospettive di crescita sono inferiori a quelle dei vicini, e non c’è banca ricca in un Paese povero. E perché i concorrenti stranieri, europei, americani e cinesi, aiutati da economie più solide, hanno già ripreso a guardare oltre confine: «Per esempio ad alcuni mercati africani, che combinano alti tassi di sviluppo a una bancarizzazione finora molto limitata».