Nuovi problemi sul fronte della tenuta finanziaria dei conti dell‘Inps. Lo spiega l’istituto di previdenza tramite il suo Consiglio di Indirizzo e Vigilanza: un buco da 6,6 miliardi di euro generato dai contributi non pagati dai datori di lavoro e che deve essere colmato non da “ravvedimenti” di questi ultimi ma da una iniziativa ad hoc dello Stato.
Proprio così: saranno le casse pubbliche a doversi far carico di questo vuoto dovuto al mancato versamento dei soldi necessari al funzionamento del sistema previdenziale, i cui conti pensionistici sono già significativamente gravati da vari fattori strutturali che complicano l’equilibrio tra entrate (contributi versati) e uscite (pensioni pagate). Si pensi ad es. al calo delle nascite, all’invecchiamento della popolazione oppure al mercato del lavoro caratterizzato da fragilità, precarietà e da moltissimi casi di carriere discontinue e contributi bassi.
E ora per l’Inps l’allarme è anche sui contributi non versati dalle aziende. Vediamo più da vicino.
6,6 miliardi di euro di contributi non versati, la voragine da colmare a spese dello Stato
Come è noto, l’Erario garantisce il buon funzionamento del sistema pensionistico, perché – attraverso il bilancio pubblico – le istituzioni intervengono per garantire l’erogazione dei trattamenti previdenziali a chi ha maturato il relativo diritto. E ciò vale con particolare riferimento alle situazioni in cui le entrate contributive dell’Inps non sono sufficienti a coprire tutte le uscite. In pratica, lo Stato interviene o può intervenire con fondi pubblici per coprire il disavanzo, tutte le volte in cui i contributi da lavoro non bastano, assicurando così la continuità dei pagamenti delle pensioni a milioni di cittadini.
Ebbene, proprio questo è il punto: lo Stato dovrà trovare nei prossimi anni le risorse per coprire le ricadute sul sistema previdenziale dello stralcio dei crediti contributivi fino al 2015, dovuti all’Inps perché questi ultimi costituivano oggetto di un obbligo di pagamento gravante sulle aziende. Ma alcuni provvedimenti parlamentari, emessi tra il 2018 e il 2022, hanno – di fatto – cancellato le cartelle contributive e quindi i debiti previdenziali dei datori di lavoro.
Per colmare il buco generato dai mancati versamenti, lo Stato si farà carico di oneri aggiuntivi e sarà costretto ad attingere alla fiscalità generale, cioè userà le tasse pagate da tutti i cittadini (imposte, IVA, accise, ecc.) per finanziare il sistema pensionistico e fronteggiare questa emergenza.
Di fatto il paese sarà obbligato a questa linea d’azione perché per i dipendenti vige il principio di automaticità delle prestazioni, secondo cui questi contributi – anche se non versati dal datore di lavoro e poi stralciati o rottamati – sono comunque parte del montante contributivo e – quindi – sono inclusi e sono calcolati per stabilire l’importo della futura pensione.
In altre parole, il Consiglio di Indirizzo e Vigilanza Inps ha spiegato che i contributi in oggetto sono “figurativi” e non materialmente versati, rimarcando che di tale impegno occorrerà tener conto: “nel momento in cui saranno determinati gli importi dei trasferimenti dal bilancio dello Stato all’Inps nelle prossime annualità“.
Non sono mancate le critiche. La Cgil ha apertamente accusato i provvedimenti di condono e stralcio delle cartelle contributive adottati fino al 2015, i quali – si stima – comportano la cancellazione di ben 16,4 miliardi di euro, con un impatto negativo di 13,7 miliardi sul rendiconto generale 2024 di Inps.