Cosa le banche italiane possono imparare da salvataggio spagnolo

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abiLa Spagna, a differenza di quanto sta succedendo in Italia, pare essersi lasciata il peggio alle spalle. La recessione del 2009, partita dalla scoppio della bolla immobiliare, sembra un lontano ricordo: il Pil spagnolo, dicono le stime odierne del Fmi, dovrebbe centrare una crescita del 2% entro la fine di quest’anno. Fatta eccezione per il tasso di disoccupazione, livello più alto della Ue, Grecia esclusa, la Spagna sembra dunque fuori dalla tempesta.

La ristrutturazione portata avanti da Madrid ha sortito effetti positivi soprattutto nel settore bancario. Qualche numero per capire meglio quello che è successo negli ultimi anni. Dal 2007 al 2009, l’incidenza dei crediti non performanti sul totale dei prestiti passa dallo 0,7% pre-crisi al 4,1%. Nei quattro anni successivi, il livello di incidenza raddoppia toccando quota 8,2 alla fine del 2013.

È in questo contesto che prende il via il maxi piano di salvataggio di Madrid con il sostegno, pari a 41,4 miliardi, dell’Unione europea. Nello stesso anno, viene creato Frob, il fondo pubblico istituito per scorporare gli asset tossici e sostenere il processo di aggregazione delle banche locali e regionali.

I risultati non hanno tardato ad arrivare. “I processi di fusione delle banche spagnole sono stati intensi e persino dolorosi, ma hanno dato indubbiamente i loro frutti in termini di profittabilità”, ha spiegato recentemente al mensile Valori Silvia Merler, Affiliate Fellow presso il think tank economico Bruegel di Bruxelles. “l risultato è che dal 2012 ad oggi la Spagna ha ridotto l’uso dei fondi della Banca centrale più velocemente e i suoi istituti hanno sperimentato un aumento del return on equity oltre a una riduzione significativa dei costi difinanziamento dei depositi retail”.

La stessa tendenza non è rilevata in Italia. “Nello stesso periodo, le banche italiane hanno registrato “un ROE negativo e sostengono costi maggiori sui depositi rispetto alle omologhe spagnole”.

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