Disconoscimento della firma nei contratti di credito al consumo

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Il disconoscimento delle firme rappresenta da sempre una delle principali criticità che caratterizzano le operazioni di credito al consumo.

La giurisprudenza, tuttavia, salvo rari casi eccezionali non è mai stata dell’avviso di preoccuparsi della problematica.

E’ sufficiente, infatti, esaminare una qualsiasi sentenza intervenuta a conclusione di un giudizio in cui il CTU abbia accertato – previa formulazione dell’istanza di verificazione ex art. 216 c.p.c. – l’apocrifia delle firme, per rendersi conto di come la circostanza rappresenti per il Giudice la sola chiave di volta per la risoluzione della controversia.

In buona sostanza, questo è quello che accade: se la perizia grafologica del CTU accerta l’apocrifia delle firme, anche alla presenza di elementi non perfettamente convergenti su di un’unica soluzione, la causa può dirsi conclusa e persa.

Eppure, a volte, è sufficiente spostare l’angolazione della problematica per rendersi conto che la CTU potrebbe non rappresentare l’unico elemento probatorio cui ancorare la valutazione sulla riconducibilità, o meno, del contratto di finanziamento al contraente indicato nel modulo, soprattutto se si tratta di operazioni di credito al consumo concluse dall’esercente convenzionato fuori dai locali commerciali della società Finanziaria.

In questi ipotesi, infatti, la CTU non rappresenta certo una chiave di volta, ma semmai uno dei tasselli che delineano il volto di un’operazione di finanziamento che potrebbe presentare dei contorni fumosi e difficilmente comprensibili.

La ragione è presto spiegata: in un’operazione di prestito al consumo finalizzato all’acquisto di un bene fuori dai locali commerciali, la raccolta delle sottoscrizioni e la verifica della loro autenticità è necessariamente rimessa all’esercente convenzionato, che assume ogni responsabilità in ordine alla loro autenticità.

In tale contesto, il ruolo della società finanziaria è unicamente quello di esaminare la richiesta di concessione del finanziamento che l’esercente convenzionato gli sottopone, ed in caso di esito favorevole, di provvedere all’erogazione della somma concordata senza alcun contatto diretto con il richiedente, ossia il consumatore.

La richiesta di finanziamento deve, tuttavia, essere accompagnata da una serie di documenti, quali la carta d’identità, la patente di guida, il codice fiscale e la busta paga, sia del soggetto richiedente sia del coobbligato o del garante.

Di tal ché, laddove in futuro dovesse intervenire un disconoscimento di firma, pur risultando accertata dal CTU la falsità delle sottoscrizioni, il possesso da parte della società finanziaria di copia tutta la suesposta documentazione dovrebbe quantomeno far insorgere nel Giudice designato il sospetto che il disconoscimento sia pretestuoso, anche in assenza di un principio di esecuzione del contratto, e sempreché la circostanza sia emersa attraverso il ricorso ad ulteriori e successivi strumenti di prova, tra i quali la prova testimoniale.

In questi termini, tuttavia, l’unico riferimento giurisprudenziale pervenuto in materia è rappresentato dalla sentenza emessa in data 19.10.2009 dal Tribunale di Perugia, secondo cui: “Ora, anche a voler ritenere, conformemente alla risultanze della CTU, che il contratto non venne sottoscritto dalla XXXX, certo che colui che appose la sua firma, disponeva del documento di identità della medesima, e tale disponibilità da un lato induce a ritenere che l’attrice avesse autorizzato il sottoscrittore a concludere il contratto in suo nome e, dall’altro, poteva ingenerare in capo a YYYY il legittimo affidamento circa la ricorrenza dei poteri rappresentativi in capo al sottoscrittore […omississ…] ne deriva che lo stesso si presentò alla concessionaria munito del documento di identità della XXXX e la società finanziaria, sia in ragione del possesso del documento che in ragione del rapporto di coniugio, ritenne legittimamente il RRRR – che, giova ricordarlo, al contempo si costituiva fideiussore – legittimato a concludere il contratto di finanziamento a nome della XXXX […omississ…] pertanto, o in forza di un atto di conferimento di legittimazione rappresentativa effettivamente esistente, o per avere colposamente creato una situazione di apparenza tale da ingenerare il legittimo affidamento della controparte, il contratto di finanziamento de quo agitur è certamente imputabile alla attrice e ciò a prescindere dalla circostanza che la sottoscrizione della XXXX non venne materialmente apposta”.

La sentenza, per quanto del 2009, rappresenta pur sempre la voce di una giurisprudenza isolata (ormai quasi dimenticata), in grado di dimostrare come, a volte, scendere nell’analisi di elementi probatori non perfettamente convergenti, offra l’opportunità di scoprire che magari, nonostante risulti accertata la falsità delle firme, per il Giudice il contratto di prestito al consumo finalizzato all’acquisto di un bene o di un servizio è comunque riconducibile al consumatore.

Il ché, può fare senz’altro la differenza, soprattutto in ipotesi in cui, a causa della presenza di esercenti convenzionati compiacenti, l’obbligato principale di un contratto di prestito al consumo ha firmato sia per il garante che per il coobbligato; avendo, peraltro, avuto cura di consegnare alla società finanziaria tutta la documentazione (sia la sua che quella del coobbligato o del garante) necessaria all’approvazione della richiesta di finanziamento.

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