Eni ha investito nella fusione a confinamento magnetico
La fusione a confinamento magnetico cambierà la geopolitica: non ci saranno più tensioni tra i Paesi, perché tutti potranno produrre energia a basso costo con l’acqua, senza dipendere da petrolio, gas o carbone ma soltanto avendo la tecnologia.
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La fusione a confinamento magnetico cambierà la geopolitica: non ci saranno più tensioni tra i Paesi, perché tutti potranno produrre energia a basso costo con l’acqua, senza dipendere da petrolio, gas o carbone ma soltanto avendo la tecnologia. “L’energia non sarà più la causa di una guerra perché tutti potranno averne accesso. Nessun Paese potrà ricattare nessuno”. È a Devens, a tre quarti d’ora di auto da Boston dove ha sede Commonwealth Fusion Systems, che il ceo di Eni Claudio Descalzi pronuncia questo discorso. Cfs è lo spin off del Massachusetts Institute of Technology nato nel 2018 con lo scopo di sviluppare la fusione a confinamento magnetico per poi industrializzare il processo e distribuire l’energia elettrica su larga scala. Eni ci ha creduto e ha investito da subito come principale azionista, con il 19% (quota che finora non era nota e rivelata in quest’occasione da Descalzi).

Con l’accordo di collaborazione firmato il 9 marzo tra Descalzi e il ceo di Cfs Bob Mumgaard, il Cane a sei zampe diventa azionista «strategico». La differenza non è solo lessicale. Il gruppo italiano fornirà le competenze di ingegnerizzazione e l’esperienza per accelerare il percorso di industrializzazione della fusione. In particolare, aiuterà nell’approvvigionamento di materiali come acciai speciali e superconduttori, necessari per costruire, nel campus inaugurato un mese fa alla presenza del Segretario Usa all’Energia Jennifer Granholm, il primo impianto pilota, «Sparc», progettato per generare energia entro fine 2025. La sfida è ambiziosa: una volta innescata la fusione, farla andare avanti da sola senza più alimentarla proprio come avviene sul Sole, ottenendo praticamente calore in modo illimitato.

La sfida successiva sarà la realizzazione della prima centrale elettrica a fusione, denominata «Arc», attesa per gli inizi del decennio 2030. Anche qui, tempi impensabili fino a poco tempo fa, ma confermati da Descalzi. «Avremo poi davanti a noi quasi vent’anni per diffondere la tecnologia e raggiungere gli obiettivi di transizione al 2050». In Cfs sono soci anche il fondo di Bill Gates Breakthrough Energy Ventures, la società energetica Equinor e il veicolo di investimento del Mit the Engine. Altri investitori potrebbero entrare. Washington ci crede. Un documento della Casa Bianca pubblicato proprio nello stesso giorno indica che il bilancio federale del 2024 prevede un miliardo di dollari per la fusione, «il maggior investimento nella promessa di una fonte energetica pulita».

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