Italia: un fondo di garanzia statale per il credito delle banche?

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Abi e Confindustria ci lavorano da mesi. L’obiettivo, nelle intenzioni, è far ripartire il credito tuttora asfittico. Ieri mattina il sottosegretario all’Economia Pierpaolo Baretta è tornato sul tema, ipotizzando di fare entrare il progetto nella manovra: «L’occasione della legge di Stabilità va colta per definire un fondo di garanzia che consenta alla banche di aprire linee di credito evitando i rischi di solvibilità».

La questione apparentemente complessa si può spiegare così: poiché dopo il disastro del 2008 gli istituti devono sottostare a regole molto più rigide, una garanzia statale permetterebbe di offrire più credito a costi inferiori.

Detta così, per il contribuente tartassato da un decisore pubblico già in difficoltà per i suoi stessi debiti non sembra un gran progetto. Sia come sia, all’estero c’è chi quel compito lo svolge per conto dello Stato da sempre.

Ha un nome astruso, ai più non dirà nulla, eppure secondo alcuni è una delle ragioni che fanno della Germania la più solida economia europea. Tecnicamente non è una banca tradizionale, di fatto è come se lo fosse. La Kreditanstalt fuer Wiederaufbau è la cugina della Cassa depositi e prestiti e della francese Caisse de Depot, gli ultimi baluardi pubblici dello Stato interventista nell’Europa che (spesso solo a parole) si dice contro gli interventi della mano pubblica.

Kfw, nata per gestire gli aiuti del piano Marshall, può contare di una particolare extraterritorialità. Basti dire che pochi mesi fa, quando la Cancelliera si mise in testa di portare dentro al bilancio pubblico i suoi utili, dovette fare i conti con la dura opposizione dei suoi vertici. Il più importante dei privilegi che le sono concessi è di fare credito alle imprese molto più di quanto non sia permesso a Cdp.

Da tempo il Tesoro – il primo fu Giulio Tremonti – tenta di allargare quei poteri in capo alla nostra Cassa. Ma per ottenerli occorrerebbe andare a Bruxelles, battere i pugni sul tavolo, e correre il rischio di farsi imporre il rientro della Cdp nel perimetro dello Stato. Inoltre la Cassa gestisce il risparmio postale degli italiani e per questo ha vincoli statutari con i quali fare i conti.

Per ovviare al problema, Abi e Confindustria, d’accordo con Rete imprese e Coop hanno messo sul tavolo del Tesoro una proposta che dalla Cdp potrebbe ipoteticamente prescindere. Le bancheprestano (ipotizziamo per cento miliardi aggiuntivi), lo Stato garantisce per la metà ma si dovrebbe effettivamente far carico del rischio sulle perdite per molto meno.

A luglio, durante un’audizione in Commissione Finanze alla Camera, il direttore generale di Unicredit Andrea Nicastro ipotizzò che con 500 milioni l’anno a carico del bilancio dello Stato si potrebbero garantire 30 miliardi di crediti. Secondo i calcoli fatti, con quella garanzia si potrebbe alimentare un punto di crescita aggiuntiva nel triennio. Baretta ipotizza anche il coinvolgimento dei fondi pensione, ma come costruire un simile sistema senza Cdp resta arduo. Così come va ben chiarito se per un Paese ad alto debito come il nostro non ci siano più rischi che opportunità.

Se ne parlerà nei prossimi giorni in Senato. Sabato scade il termine per la presentazione degli emendamenti. Per Letta trovare un accordo sarà durissima. Renato Brunetta si dice ad esempio contro l’ipotesi di rinviare a tempi migliori – ad esempio dopo l’accordo con la Svizzera sul rientro dei capitali – il taglio del cosiddetto cuneo fiscale, concentrandosi nel frattempo sui più poveri. Per il capogruppo Pdl alla Camera «per sostituire entrate strutturali, come sono quelle che provengono dalle tasse e dai contributi sui salari, sono necessarie risorse altrettanto certe e permanenti».

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