Con la cultura non si mangia…
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Pochi anni fa in un saggio di ampia portata (Mass Flourishing – How Grassroots Innovation Created Jobs, Challenge, and Change, Princeton University Press, 2013), già divenuto oggetto di un approfondito dibattito quando non di ispirazione, Edmund Phelps, premio Nobel per l’economia nel 2006, affrontava un tema cruciale: da che dipende il rallentamento delle economie che si osserva ormai da più di un decennio, e verso dove siamo indirizzati? Domande, queste, che si intrecciano con la discussione, spostatasi ormai dall’accademia alle stanze della politica, su che fare per contrastare la “stagnazione secolare” che discende secondo alcuni dalle crescenti difficoltà di trasformare in investimenti il risparmio che si genera nell’economia, e secondo altri, non necessariamente in alternativa, dalla tendenziale minor crescita della produttività dopo decenni di straordinario sviluppo tecnologico e organizzativo.

Al di là di spiegazioni contingenti – crisi finanziaria globale, difficoltà dei paesi emergenti, invecchiamento della popolazione – e in contrasto forse con le richieste di accrescere con forza lo stimolo della domanda pubblica nell’economia, Phelps concludeva con alcune notevoli affermazioni: il progresso conseguito negli ultimi due secoli da masse crescenti di persone è il risultato di un diffuso e crescente dinamismo di fondo derivato dall’affermarsi, dal “fiorire”, di valori quali il bisogno di creare, la propensione a esplorare, la ricerca di lavori più appaganti, il desiderio di affrontare nuove sfide e di avere successo; questo dinamismo si è andato affievolendo insieme con l’affermarsi di un “corporativismo” volto nel migliore dei casi, quando non a difendere posizioni di rendita, a sostenere gli “esclusi” e i più deboli con strumenti di ridistribuzione o di contrasto alla povertà destinati a perpetuare lo status quo, anziché a creare nuove occasioni di sviluppo; questa tendenza, ormai visibile secondo Phelps negli Stati Uniti, è da tempo prevalente nell’Europa continentale, in particolare in Italia, con una crescita dell’economia e una creazione di nuovi posti di lavoro dipendenti non da innovazioni interne all’area ma dal dinamismo esterno, anch’esso, come detto, ora in rallentamento; occorre quindi ristabilire a tutti i livelli – di legislazione e di governo, di regolazione di mercati e intermediari, di conduzione delle imprese – l’apertura all’innovazione, la disponibilità a guardare oltre il breve termine, l’affermarsi, diremmo, di una “classe dirigente” consapevole e preparata, aperta a coltivare risorse quali “creatività, curiosità e vitalità”, a ricercare l’equità con l’inclusione più che con la ridistribuzione.

Insomma, un “vaste programme”, con fondamentali riferimenti culturali: dalla vitalità di un Omero o di un Cellini al sogno e all’immaginazione del Don Quixote di Miguel Cervantes e dell’Hamlet e del King Lear di Shakespeare; dalle “passioni” e dall’enfasi sulla crescita della conoscenza nella società di David Hume all’“Il faut cultiver notre jardin” nel Candide di Voltaire; dal “life, liberty and pursuit of happiness” di Thomas Jefferson all’importanza del “divenire” sull’”essere” di intellettuali pur così diversi come Montaigne, Ibsen, Kierkegaard, Nietzsche o Henri Bergson, fino al modernismo di un Wilde, un Verdi e un Mascagni, e molto altro.

Ora, possiamo essere più o meno d’accordo con le proposte di Phelps, sottolinearne limiti e omissioni dell’analisi, enfatizzare con lui come il ritorno alla crescita dell’innovazione in un ambito nazionale richieda l’affermarsi di una “cultura volta a proteggere e stimolare l’individualità, l’immaginazione, la comprensione e l’espressione della propria personalità” o sottolineare, per citare la recensione di Bob Shiller al suo libro, che “riconoscere la necessità di sperimentare nuove forme di organizzazione economica non significa necessariamente abbandonare l’equità e la compassione”. Ma è certo che, soprattutto nel nostro paese, non si può non prendere atto che viviamo in un’epoca di profondi cambiamenti; gli effetti della globalizzazione, gli andamenti demografici, gli avanzamenti tecnologici sono di una tale portata che, se è impossibile ”prevedere il futuro”, dobbiamo tutti comprendere che è prioritario rafforzare, da un lato, la capacità dell’economia di stimolare l’innovazione e incorporare il progresso tecnologico, oggi motori fondamentali di crescita e benessere, dall’altro, fare in modo che tutti possano parteciparvi e goderne i frutti.

A questo fine, partiamo da alcuni “fatti”, pur consapevoli che non ci si può limitare a ripetere, come Mr Gradgrind in Hard Times di Charles Dickens, che “solo di fatti abbiamo bisogno nella vita”… Il primo fatto è che la nostra economia ristagna da ben prima della crisi finanziaria. Da più parti ne sono state investigate le ragioni: dai “lacci e lacciuoli” nell’amministrazione e nei servizi pubblici all’insufficienza dei servizi privati; da una particolare specializzazione produttiva e una dimensione media particolarmente ridotta delle imprese a un ambiente socio-economico non favorevole, in larga parte del nostro territorio, all’affermarsi di una sana e moderna cultura d’impresa; da una dipendenza eccessiva di imprese poco capitalizzate a investimenti in ricerca e sviluppo troppo bassi e concentrati; da un debito pubblico particolarmente elevato che limita iniziative volte a rinnovare le infrastrutture e a favorire investimenti pubblici, in presenza di vincoli di varia natura che operano sulla spesa corrente, alla scarsità di investimenti privati in grado di determinare, con l’innovazione, un significativo innalzamento della produttività.

Emergono insomma nettamente nel nostro paese le debolezze considerate nell’analisi di Phelps. Alla mancata crescita dell’economia nell’ultimo ventennio, e in particolare a una caduta della produzione industriale e del prodotto interno lordo rispettivamente di circa un quarto e quasi un decimo tra il 2008 e il 2014, hanno fatto riscontro una flessione degli investimenti privati e pubblici senza precedenti e gravi difficoltà sul fronte dei prestiti bancari, con un incremento dei crediti deteriorati che alla lunga pesa gravemente sui bilanci delle banche.

In secondo luogo, la diffusione delle nuove tecnologie, non solo di natura digitale, si è accompagnata nelle imprese italiane all’accentuarsi dei ritardi sul fronte della scolarizzazione, dell’istruzione terziaria e della formazione, e quindi a livelli di capitale umano in media decisamente più bassi che negli altri principali paesi. Ma è un fatto che l’investimento in capitale umano è particolarmente redditizio e che si tratta di un fattore sempre più importante per la crescita dell’economia. Anche in Italia le persone più istruite hanno minori difficoltà nel trovare un lavoro, hanno carriere meno frammentate e salari più elevati; se si guardano gli indicatori disponibili studiare sembra però rendere meno che altrove. Si tratta, evidentemente, di un paradosso; a uno stock di capitale minore dovrebbe corrispondere un maggiore rendimento per

ogni unità di capitale aggiuntivo, e così non è. In parte, il paradosso è riconducibile alle strategie delle imprese, con una domanda di lavoro qualificato frenata dalla specializzazione in settori tradizionali e ad alta intensità di lavoro, dalla dimensione aziendale ridotta, dal contesto istituzionale e regolamentare. Ma potrebbe pesare anche la percezione di un deterioramento nella qualità dell’istruzione cui le imprese avrebbero reagito, in condizioni di informazione imperfetta, con un’offerta generalizzata di bassi salari (e sfruttando la maggior flessibilità nel mercato del lavoro non per fare investimenti e riorganizzazioni ma per mantenere vantaggi di breve durata sul fronte salariale). A loro volta i bassi salari non avrebbero giustificato più elevati investimenti privati in istruzione.

La presenza di significative difficoltà nel trovare competenze adeguate nel mercato del lavoro, in particolare nell’utilizzo delle tecnologie digitali (in Italia solo il 50 per cento dei lavoratori utilizza il computer contro una media del 70 per cento per il complesso dei paesi dell’OCSE), potrebbe poi avere spinto le imprese non a innalzare i salari ma a ridurre la propensione a investire in nuove tecnologie, contenendo così il fabbisogno di manodopera qualificata: un circolo vizioso che oltre a deprimere ulteriormente l’incentivo all’investimento in capitale umano, spingerebbe i lavoratori più qualificati a cercare altrove migliori opportunità lavorative.

Un ultimo fatto, più difficile da quantificare, riguarda le tendenze in corso connesse con le innovazioni che si prevede saranno di ampio uso in un prossimo futuro (dalla robotica avanzata ai mezzi di trasporto autonomi o quasi, dalle tecnologie per l’immagazzinamento dell’energia alla stampa a 3D, dalla genomica alla tecnologia cloud e ai materiali avanzati). Anche se è difficile concordare su una dimensione temporale precisa, gli effetti sui processi produttivi, sull’organizzazione del lavoro, sulla distribuzione del reddito, sulla nostra stessa vita personale potranno essere travolgenti. Si tratta di innovazioni spesso collegate tra loro, che si alimentano a vicenda rendendo possibili brusche accelerazioni e inaspettate applicazioni (si pensi all’ “internet delle cose”). Nella transizione, scompariranno inevitabilmente molti posti di lavoro; alla perdita di determinati lavori corrisponderà certamente la nascita di nuovi, ma il risultato netto e soprattutto i tempi per una sostituzione ampia ed equilibrata sono tutti da determinare. Nel breve-medio periodo non potrà che accentuarsi la polarizzazione delle professioni, con una ricomposizione dell’occupazione dalle attività svolte da lavoratori con una formazione di tipo professionale e basate sull’utilizzo di utensili e macchinari verso quelle più complesse che richiedono una formazione avanzata. Oggi da noi la quota di queste ultime è inferiore a un terzo, contro il 45 per cento circa nella media dell’Unione europea e il 50 per cento nei paesi nordici.

Ma vi è di più, oltre questi fatti. Il capitale umano non potrà infatti più coincidere, se mai l’ha fatto, con il bagaglio conoscitivo delle persone; la produttività di chi lavora non sarà più necessariamente legata a conoscenze tradizionali acquisite una volta per tutte nella scuola e nell’università e applicate in modo standard nel corso della vita lavorativa. Assumeranno sempre più importanza le “competenze”: la capacità di mobilitare in maniera integrata risorse interne (saperi, saper fare, atteggiamenti) ed esterne, per far fronte in modo efficace a situazioni spesso inedite, non di routine. Sempre più importanti saranno l’esercizio del pensiero critico, l’attitudine a risolvere i problemi, la creatività, la disponibilità positiva nei confronti dell’innovazione, la capacità di comunicare in modo efficace, l’apertura alla collaborazione. Insomma, i valori messi in luce da Phelps.

Servirà più cultura, e bisognerà superare una buona volta e definitivamente la barriera che da noi separa la cosiddetta cultura “umanistica”, da valorizzare, da quella “tecnico-scientifica”, su cui investire. Al termine “cultura”, dalle molte sfaccettature e spesso generatore di equivoci (ma ricordiamo quanto bassa è da noi la “spesa culturale” – nella definizione, pur limitata, di spesa in libri non scolastici, giornali e riviste, cinema, concerti, teatri, musei – con una caduta da 30 a 25 euro mensili tra il 1997 e il 2011, a fronte di un aumento di oltre il 20 per cento della spesa media complessiva), io preferisco il termine, in un’accezione ampia inclusiva delle nuove competenze, di “conoscenza”. E se oltre i fatti sono importanti i valori va sottolineato con forza che oltre a un impatto positivo sulla crescita economica ne possono derivare contributi fondamentali per il rafforzamento del senso civico e la comprensione dell’importanza del rispetto delle regole e degli altri, per l’affermazione del diritto contro l’accettazione passiva di livelli di corruzione inaccettabili e dannosi, per non parlare di intollerabili abusi e di pericolosi atteggiamenti nei confronti della criminalità organizzata.

Ma bisogna essere consapevoli che non si tratta solo di chiedere allo Stato di fare la sua parte, e quindi “di più”. Si tratta di maturare questa consapevolezza a livello collettivo, individui e imprese, giovani e anziani, dipendenti e non. Perché investire in cultura, in “conoscenza”, è la risposta migliore che possiamo dare alle difficoltà di oggi e all’incertezza del futuro, consapevoli che finirà per ripagarci, con gli interessi. Perché, come scriveva ormai quasi tre secoli fa Benjamin Franklin nel suo Almanacco, “An investment in knowledge pays the best interest”, il rendimento dell’investimento in conoscenza è più alto di quello di ogni altro investimento.

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