La vigilanza porta il conto alle banche

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Come ampiamente previsto, la Bce ha deciso di non variare i tassi di interesse, segnalando, come già avevano fatto la Fed e la Bank of England, la delicatezza dell’attuale situazione economica e monetaria. Il punto cruciale è che gli eccezionali strumenti utilizzati dalle banche centrali negli ultimi anni hanno raggiunto l’obiettivo di evitare che la crisi innescasse una depressione che avrebbe potuto essere più grave di quella degli anni Trenta, hanno rimesso in linea di galleggiamento le banche, ma non hanno avviato ancora una ripresa economica sufficientemente robusta e tanto meno l’aumento dei livelli di occupazione necessario per far ripartire la domanda interna.

In queste condizioni, continuare con l’eccezionale esperimento monetario attuato negli ultimi anni, sia pure con le differenze dovute ai vari contesti istituzionali, comporta più rischi che vantaggi e dunque dove l’economia va meglio, come in America, si delinea la necessità di togliere gradualmente il sostegno degli 85 miliardi di acquisti mensili di titoli della Fed. E anche in Europa, dove permangono varie zone d’ombra, prevale ormai la sensazione che occorra tornare verso politiche più convenzionali e quindi meno generose. Non a caso, tutte le banche centrali hanno ritenuto opportuno ridurre l’incertezza dei mercati e hanno accentuato le informazioni sulle loro decisioni, la cosiddetta forward guidance, che non rappresenta – come ha ribadito ieri Mario Draghi in conferenza stampa – una diversa funzione di reazione delle banche centrali, ma una maggior trasparenza della funzione di reazione stessa.

Ma nonostante la svolta sia stata definita con il termine più soave a disposizione della lingua inglese (tapering, che normalmente si usa per descrivere come si spengono le candele) e sia stata collocata ben oltre il 2014, i mercati restano molto nervosi perché, come ha detto il capo di uno dei più importanti asset manager del mondo (Mohamed El-Erian), i prezzi di molte attività finanziarie sono stati «sostenuti artificialmente».
L’Europa però ha anche problemi specifici. Nell’area euro, ad alcuni segni di ripresa permangono almeno due problemi strutturali. La frammentazione fra Paesi si è ridotta, ma rimane su livelli non fisiologici: la moneta è unica, ma le condizioni di mercati e tassi sono tante quanti i Paesi di Eurolandia. Il credito bancario continua a declinare: in luglio i prestiti a famiglie e imprese sono diminuiti del 2,8% rispetto al 2012, contro il 2,3 di giugno.

È lo specchio delle debolezze di un’unione monetaria priva del sostegno di una politica di bilancio e bancaria comuni. E sono i governi, non le banche centrali, da cui si attende una risposta. Come ha recentemente detto Ignazio Visco, «più di ogni condizione è essenziale la comune determinazione a procedere verso una piena Unione europea. Bce e banche centrali nazionali hanno dimostrato di essere pronte ad accompagnare il cammino, continuando a “produrre” la fiducia necessaria. Ma la fiducia non resiste a lungo all’assenza di progressi concreti».

Il primo appuntamento con i “progressi concreti” riguarda l’unione bancaria, soprattutto per quanto riguarda l’accentramento dei poteri di vigilanza a Francoforte. Draghi ha confermato che entro metà ottobre si avranno indicazioni sulla Asset Quality Review, la valutazione delle condizioni di salute delle principali banche europee, basata su criteri severi e omogenei.

Il sistema bancario europeo è ormai la fotografia della frammentazione e dell’incertezza che minacciano l’euro: ai dubbi storici sulla valutazione dei titoli e sui criteri che portano alla valutazione dei rischi ai fini dei coefficienti di Basilea se ne aggiungono altri legati a un’altra posta cruciale del bilancio delle banche: gli accantonamenti per il rischio di credito. Le differenze sono troppo ampie per essere spiegate solo da fattori nazionali o dalle condizioni di profittabilità delle singole banche: come è possibile che gli accantonamenti assorbano due terzi del profitto lordo delle banche italiane, metà di quelle spagnole e un quarto di quelle tedesche? Ma un sistema bancario i cui bilanci sono avvolti nella nebbia non è in grado di reperire capitali, non consente di distinguere i buoni dai cattivi e quindi non è in grado di fornire credito all’economia produttiva.
Tutto questo significa che il fronte della battaglia per la difesa dell’euro si sposta dalla politica monetaria a quella bancaria e di vigilanza e per questo la riunione di ieri a Francoforte è stata essenzialmente interlocutoria. Non è dalle decisioni sui tassi che ci dobbiamo aspettare le svolte decisive per l’economia europea, ma dai prossimi passi dell’unione bancaria, che inizieranno il mese prossimo. Quello sarà il momento della verità: quando le zone di debolezza del sistema bancario europeo saranno state identificate, si tratterà di valutare come risolverle, quali meccanismi riparatori entreranno in funzione: la ricapitalizzazione pubblica o privata o addirittura la liquidazione. A quel punto sapremo davvero quanti progressi ha fatto la politica europea.

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