L’APP che ti segue, controlla quanto sport fai, cosa mangi, quando dormi e manda i dati alla compagnia di assicurazione per determinare il premio della polizza non è folklore. Quello che sta debuttando in Germania e che negli Usa è già prassi, è la rappresentazione del mondo che stiamo costruendo “a nostra insaputa”, quando invece essere informati dei rischi e delle opportunità del digitale non può essere più solo un diritto, ma anche un dovere. Legittima difesa. Per esempio, nel numero di novembre, l’edizione britannica del mensile Wired è uscita con una storia di copertina che non ti aspetti: “Attenzione, l’industria dei dati sta vendendo la tua vita. La tua salute, le tasse, i segreti del tuo telefono sono sul mercato. È ora di riprendersi la privacy”. Per sostenere questa tesi, una storia personale impressionante: una giovane giornalista di origine asiatica, Madhumita Venkataramanan, aveva provato a scoprire quello che una qualunque azienda poteva sapere di lei attraverso i dati personali dalla sua navigazione in Rete. Il risultato? Un ritratto preciso e ricco di dettagli, compreso il tipo di cibo che cucina a casa, il mobilio e i tratti caratteriali. «Questo è quello che un gruppo di aziende, di cui io non avevo mai sentito parlare, poteva sapere di me». È giusto? Ed è il mondo in cui vogliamo vivere? Queste domande diventano ogni giorno più urgenti. Perché da un lato c’è la rivoluzione digitale, con la sua promessa di un mondo migliore, un mondo di app che in tempo reale ti danno risposte, offrono servizi, risolvono problemi.