L’industria americana del venture capitalism non crede più negli unicorni
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A più di anno di distanza dalle prime osservazioni, questo fenomeno è da considerarsi consolidato. Chi investe in modo massiccio cerca sempre meno startup destinate a diventare Uber o Facebook e si concentra sempre più sugli scarafaggi, ovvero quelle neo-imprese che hanno ambizioni più ridotte ma che, come gli insetti blattoidei, resistono alle intemperie e si adattano alle difficoltà.

I numeri. Tra il mese di aprile del 2015 e l’aprile del 2016 il mercato americano del capitale a rischio è diminuito del 30%. Le cause sono da ricercare nell’incertezza politica e in quella economica e i venture capitalist, attendisti per definizione, stanno aspettando il momento più opportuno (o meno sfavorevole) per staccare assegni. Nell’ultimo trimestre del 2015 i venture capitalist hanno investito 11,3 miliardi di dollari in 960 startup, il 30% in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Il primo trimestre del 2016 ha visto un ulteriore calo del 25% e i dati del secondo trimestre di quest’anno, ancora frammentari, sembrano confermare un’ulteriore frenata sia per quanto riguarda il capitale erogato, sia per ciò che attiene al numero di startup in cui si è investito.

 

Finisce un’era. Gli unicorni non tirano più, qualcosa si è rotto all’inizio del 2015 quando, dopo una corsa esaltante, le startup con valore superiore al miliardo di dollari, erano 176.

Nel corso dei primi 8 mesi del 2016 sono stati fatti 29 investimenti a favore degli unicorni, 10 dei quali tra India e Cina e finanziati da venture e aziende locali. Durante i primi mesi del 2015 gli analisti hanno cominciato a rivedere le proprie posizioni, lasciando scemare l’entusiasmo che si era venuto a creare attorno agli unicorni, complici la valutazione troppo abbondante di Dropbox, stimata molto per eccesso a 10 miliardi di dollari e complice l’Ipo di Square che a ottobre del 2014 voleva rastrellare 6 miliardi di dollari e che un anno dopo, al momento di affacciarsi al New York Stock Exchange (novembre 2015) ha racimolato 2,9 miliardi, poco meno della metà.

 

L’anno dei conigli e degli scarafaggi. Anand Sanwal, Ceo dell’azienda di previsioni CB Insights, aveva anticipato un anno fa che questo 2016 sarebbe stato l’anno dei conigli, in inglese rabbit, ovvero acronimo di Real Actual Business Building Interesting Tech, aziende più concrete nell’immediato che non hanno velleità di conquistare il mercato mondiale. Una previsione non del tutto sbagliata, anche se il mercato degli investimenti ad alto rischio l’ha perfezionata un poco scegliendo gli scarafaggi, ovvero quelle aziende che sanno resistere a momenti di crisi e, senza perdere potenzialità, sanno mostrarsi di nuovo pronte nel momento in cui le condizioni migliorano. Sono di norma snelle, piccole e quindi scattanti ma, cosa che assume importanza, bruciano molta meno cassa di quanto non facciano le startup che hanno i numeri per diventare unicorni. I Venture capitalist non tirano indietro il braccio tant’è che, negli Usa durante il 2015, hanno finanziato 145 startup con almeno un miliardo di dollari ognuna.

La sensazione che molti unicorni rischiassero di diventare una bolla e la convinzione che non ci sia più molto spazio per una nuova serie di startup capaci di rivoluzionare il mercato, stanno spingendo i finanziatori a osservare da vicino realtà più dinamiche e resistenti, anche se non saranno in grado di conquistare il mondo. Una corsia preferenziale sulla quale fare scorrere gli investimenti che, in futuro, potrebbe persino ridimensionare il valore degli unicorni attuali.

 

E gli unicorni italiani? Secondo Techtour hanno buone possibilità due aziende, Octo Telematics e Translated . La prima produce scatole nere che mandano dati ai soccorsi e alle assicurazioni quando si verifica un incidente, la seconda eroga un servizio di traduzioni. Ce ne sarebbe una terza, BravoFly, che però ha cercato e trovato fortuna in Svizzera.

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