Per anni gli account ufficiali di aziende e celebrità hanno goduto gratuitamente su Twitter di una spunta che verificava la loro autenticità
Elon Musk, il nuovo proprietario di Twitter pretende che tutti paghino un abbonamento mensile per la spunta: otto dollari per la spunta blu, che certifica gli individui, oppure mille dollari per quella oro che identifica le organizzazioni.
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Elon Musk, il nuovo proprietario di Twitter pretende che tutti paghino un abbonamento mensile per la spunta: otto dollari per la spunta blu, che certifica gli individui, oppure mille dollari per quella oro che identifica le organizzazioni.

L’ultimatum di Musk – pagate oppure perderete la vostra spunta -è scaduto lo scorso 1 aprile. Non è un pesce d’aprile. L’azienda ha comunicato che sta iniziando a rimuovere le spunte di chi non ha pagato.

Il primo – o almeno uno dei primissimi – che ne ha fatto le spese è stato quello del New York Times.

Per ora il popolare giornale americano sembra essere l’unica grande testata internazionale ad aver perso il ‘badge’. Tutte le altre che hanno comunicato di non voler sottoscrivere un abbonamento – dal Washington Post al Los Angeles Times – in effetti hanno ancora la spunta oro sui loro profili.

Oppure davvero Musk vuole concedere “alcune settimane di grazia” ai profili che non hanno ancora sottoscritto un abbonamento, a patto che dichiarino subito di essere disposti a pagare. L’imprenditore lo avrebbe scritto in un tweet pubblicato sul social e poi cancellato.

Anche celebrità come LeBron James e Patrick Mahomes, che si erano detti contrari a versare una quota per avere la spunta blu, in effetti non sono stati toccati dal provvedimento.

Due domande, a questo punto, sorgono spontanee.

La prima è questa: perché i grandi giornali americani non vogliono pagare mille dollari al mese per una spunta che certifica i loro contenuti?

La risposta è stata accennata da Sara Yasin, managing editor del Los Angeles Times: “Questo nuovo processo di verifica non stabilisce più alcuna autorità o credibilità”. Un concetto ribadito anche dal portavoce del Washington Post, che ha dichiarato: “È evidente che una spunta non rappresenta più alcuna autorità o competenza”.

Per questo motivo tutti i quotidiani che si sono ribellati a Musk non rimborseranno ai loro giornalisti gli otto dollari al mese necessari per conservare la spunta blu. In una nota inviata al suo staff, Politico ha scritto: “In futuro un badge non dimostrerà più che siete dei giornalisti verificati. Ma solo che pagate per avere dei benefit come la possibilità di scrivere tweet più lunghi o di vedere meno pubblicità”.

La seconda domanda, invece, è questa: perché Twitter ha rimosso immediatamente la spunta al New York Times e ha graziato – per ora – tutti gli altri?

In questo caso la risposta è più complicata.

Con un tweet ufficiale, il social ha comunicato lo scorso 23 marzo che la rimozione delle spunte, dai profili che ne godevano prima dell’avvento di Musk, sarebbe iniziata il primo aprile. Questa operazione richiede del tempo, come ha raccontato il Washington Post, e quindi gli account di altre testate come il Los Angeles Times o Politico potrebbero semplicemente avere le ore contate.

Tra Musk e il New York Times non corre buon sangue. E questo potrebbe aver fatto la differenza. Quando il Times ha fatto sapere che non avrebbe pagato né per sé né per i suoi giornalisti, come ha riportato Reuters nella giornata di ieri, su Twitter ha iniziato a circolare un meme con protagonista Musk che afferma: “Il Nyt non vuole pagare per la spunta. Guardate, non importa a nessuno”.

Il vero Musk ha preso la palla al balzo. E ha commentato quel meme con un tweet: “Oh, ok, gliela togliamo allora”. Neanche un’ora dopo, l’imprenditore ha aggiunto un altro tweet: “La vera tragedia per il New York Times è che la loro propaganda non è neanche interessante”. E ancora, qualche minuto dopo: “Il loro feed è illeggibile, è come diarrea. Avrebbero molti più follower se condividessero gli articoli principali”.

Sono passate alcune ore e, all’improvviso, la spunta d’oro dell’account principale del New York Times è sparita. Una decisione umorale, probabilmente, come tante a cui – negli ultimi tempi – ci ha abituati l’imprenditore.

Anche perché pochi giorni prima, il 30 marzo, proprio il New York Times ha rivelato che il social di Musk intende fare delle eccezioni: i migliori 500 investitori e le 10mila aziende/organizzazioni più seguite sulla piattaforma potranno conservare la loro spunta senza pagare un centesimo. Tra queste, con i suoi 55 milioni di follower, c’è sicuramente anche il New York Times, che risulta addirittura tra i 30 account più seguiti sul social.

Lo scontro tra il Ceo di Tesla e il quotidiano americano si è acceso a maggio del 2022, quando il Times ha pubblicato un articolo sull’infanzia di Elon Musk in Sudafrica, lasciando intendere come la sua vita fosse lontana dalle atrocità dell’apartheid. Il pezzo aveva scatenato le ire della madre dell’imprenditore, Maye Musk, che su Twitter aveva tuonato: “In Sudafrica se ti dichiaravi apertamente contro l’apartheid finivi in prigione. Volete forse condannare un bambino per le decisioni prese da un governo?”.

Pochi mesi dopo, a dicembre 2022, Musk aveva rivolto un altro pesante attacco al New York Times, colpevole – secondo l’imprenditore – di non aver rivolto la giusta attenzione ai suoi Twitter Files. “Questo perché il New York Times è diventato, a tutti gli effetti, una società di lobbying non registrata per i politici di estrema sinistra” aveva dichiarato Musk attraverso un tweet.

Il braccio di ferro con il New York Times è il frutto della strategia di Musk volta a monetizzare il più possibile il social networkche ha acquistato per 44 miliardi di dollari alla fine del 2022. In un documento sfuggito all’azienda, si legge che il valore di Twitter oggi sarebbe appena la metà: 20 miliardi di dollari.

La spunta blu e oro, tuttavia, non influiscono solo sui conti del social. Musk ha infatti stabilito che, a partire dal prossimo 15 aprile, i profili senza spunta non potranno comparire nella sezione “Per te” degli utenti, vale a dire quella generata da un algoritmo che spinge i contenuti “consigliati”.

Chi non paga, insomma, ha meno probabilità di essere visibile sulla piattaforma e meno possibilità di diventare virale con un tweet. A meno che non possa contare su milioni di follower come – indovinate un po’? – il New York Times.

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