Pmi, spinta da 219 miliardi (46%) alle esportazioni italiane
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Sono la spina dorsale dell’economia italiana con un giro d’affari di mille miliardi di euro e un terzo di tutti gli occupati all’attivo. Ma rappresentano anche un traino cruciale per l’export: 219 miliardi di euro, la fetta ascrivibile a questo segmento (il 46% del totale), con una crescita media annua del 2,7% tra il 2017 e il 2021 e con un pieno recupero nel post pandemia. È questo l’identikit delle pmi italiane tracciato dall’ufficio studi della Sace da cui prenderà le mosse un’ulteriore analisi “Piccole, medie e più competitive: le pmi italiane alla prova dell’export tra transizione sostenibile e digitale”, che sarà realizzata in collaborazione con The European House Ambrosetti e presentata al prossimo Forum di Cernobbio, aperto per la prima volta quest’anno anche alle pmi, le quali potranno accedere e seguire virtualmente la tre giorni di lavori, incontri e dibattiti grazie a Sace. Che ha messo, come noto, le pmi anche al centro degli obiettivi del suo ultimo piano industriale (Insieme 2025).

L’esercito delle piccole

Le pmi risultano, quindi, uno snodo fondamentale del tessuto economico italiano, ma sono anche protagoniste sul terreno dell’export, come certifica la fotografia elaborata dal gruppo guidato da Alessandra Ricci: nel 2021 – ultimo dato disponibile incrociando i numeri dell’annuario Ice/Istat – sono infatti 50.300 le pmi che esportano (sugli oltre 120mila esportatori), sostanzialmente stabili rispetto al dato di cinque anni prima (-0,1% il ritmo di crescita media annua tra 2017 e 2021). Con una forte dicotomia all’interno di questo macro aggregato. Le piccole imprese esportatrici sono decisamente più numerose (quasi 40mila, l’80% del totale) e negli ultimi cinque anni hanno mostrato una lieve contrazione. Di contro, le medie, pur inferiori dal punto di vista numerico, hanno visto una crescita media annua dell’1,8% nello stesso arco temporale.

La resilienza

Ma chi ha fornito il contributo maggiore negli ultimi anni? La risposta del focus messo a punto dall’ufficio studi di Sace, coordinato da Alessandro Terzulli, è chiarissima: nel triennio precedente lo shock pandemico sono state le medie imprese a contribuire positivamente all’andamento dell’aggregato pmi. La riduzione del 2020, invece, ha riguardato entrambe le classi dimensionali, colpendo però in misura minore quella media (-2,9%) che ha recuperato i livelli pre-pandemici già l’anno successivo, al contrario delle piccole imprese che tendono a essere caratterizzate da una generalizzata maggiore volatilità riflessa in contrazioni più marcate nei periodi critici e in rimbalzi più ampi in quelli di ripresa.

Quanto alla struttura finanziaria, nonostante alcuni segnali di attenzione emersi nel corso del primo trimestre 2023, le pmi italiane, evidenziano gli analisti della Sace, possono contare su un assetto rafforzato negli ultimi anni e su livelli di debito relativamente contenuti, che permettono loro di mitigare, almeno in parte l’esposizione agli effetti avversi legati al peggioramento delle condizioni creditizie. 

Una realtà, dunque, tutt’altro che statica. E che ha saputo, potendo contare su un forte incremento di produttività del lavoro registrato negli ultimi anni e che ha raggiunto livelli superiori a quelli di Germania e Spagna, migliorare la propria competitività sui mercati internazionali. Tanto che, sottolinea lo studio, esporta il 57% di tutte le piccole imprese manifatturiere e oltre il 90% delle medie. Non solo. Esse mostrano una spiccata propensione all’export con oltre un terzo di tutto il fatturato realizzato all’estero, dato superiore a quello dei principali paesi europei (Germania, Francia e Spagna).

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