Quando si pensa all’Europa si pensa con ricorrenza a qualcosa di molto fragile

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ZTanto da far riposare una parte consistente del proprio futuro su un singolo evento, ovvero, le elezioni del 26 Maggio. Questo non accade in altre comunità o costruzioni politiche.

Risulta difficile rintracciare altri appuntamenti elettorali in cui la posta in palio sia l’esistenza dello Stato stesso. L’unica figura alla quale si potrebbero affiancare le prossime elezioni europee sarebbe quella di un referendum, in quanto dietro il voto ci sarà sempre la scelta tra: proseguire con l’integrazione europea, oppure tornare indietro.

In effetti, il referendum è quel tipo di elezione in cui si può presentare lo scenario dove si mette in discussione la dimensione di uno Stato, la sua forma o il suo sistema politico. Tra i casi più vicini abbiamo quelli Scozia e della Catalogna (quest’ultimo interdetto dalla Spagna perché minacciava l’unità del Paese). Eppure, tornando un po’ più indietro nel tempo, si potrebbe citare il referendum del ’46 nel quale gli italiani dovettero decidere tra la Monarchia o la Repubblica.

La fedeltà, quasi obbligatoria, a certi valori e simboli condivisi…

In ogni caso, la posta in palio dei referendum menzionati in precedenza ha riguardato degli elementi inerenti alla dimensione territoriale, la densità demografica, l’economia  e/o, la forma dello Stato (nel caso italiano). A prescindere dei mutamenti che gli Stati avrebbero potuto subire in termini di forma e dimensione dopo un determinato risultato, non è mai stata messa in discussione la loro esistenza in sé.

In ogni caso, i referendum essendo composti da un quesito particolare dinanzi al quale si pone la scelta tra il sì e il no, tra l’accettazione o la negazione di un qualcosa, non possono paragonarsi ai processi elettorali che ogni quattro-cinque anni in media vedono concorrere dei candidati che, pur avendo dei programmi o delle ideologie diverse, opposte e spesso inconciliabili, dovrebbero aderire, in linea di massima, a certi valori primari e fondamentali condivisi dalla Comunità Politica di riferimento, ossia, a quelli disposti in una costituzione formale o materiale oppure segnati in qualche parte della memoria collettiva.

La fedeltà ai valori dello Stato.

Questa specie di ‘requisito di fedeltà’ alla sostanza della Comunità politica che si cerca di rappresentare, potrebbe essere definito  come un meccanismo di tutela latente al quale, tacita o espressamente, tutti gli attori politici devono sottoscrivere al momento di concorrere per qualsiasi carica pubblica in ambito nazionale. Come un esempio di ciò, possiamo citare il caso di Marine Le Pen in Francia, la quale, pur rappresentando l’alone più reazionario della Politica transalpina, non ha mai osato di mettere in discussione in pubblico la Rivoluzione del 1789 né i suoi valori dato che sarebbe controproducente battersi contro la cesura storica che ha dato forma alla Francia che conosciamo oggi e all’interno della quale si vuole essere eletti.

Un altro caso sarebbe quello della Lega Nord, la quale, pur avendo iniziato come un movimento d’ispirazione scissionista, una volta che ha deciso di concorrere per un’esperienza di governo al di là della minoranza alla quale era sempre stata circoscritta, ha accolto dei simboli e dei valori condivisi a livello nazionale, sostituendo la Padaniaper l’Italia, modificando lo slogan Prima il Nord per quello di Prima gli italiani e rimpiazzando la classica frattura Nord-Sud per quella che vede contrapposti italiani e immigrati.  Questo passaggio è stato necessario al momento di concorrere verso un’effettiva partecipazione alla maggioranza che gli permettesse di superare la soglia dell’irrilevanza.

Si tratta di un indiscutibile rapporto tra politica e narrazione, tra gli attori e i valori della Comunità Politica all’interno della quale essi sono inseriti. Questi valori devono entrare nel calcolo, nella strutturazione del discorso, nei simboli e nell’agire di chiunque voglia conquistare il Potere attraverso lo strumento del suffragio. In altre parole, gli stessi attori politici riterrebbero sconsigliato uscire dal contesto dei principi e valori che formano l’identità collettiva di una nazione o di una qualsiasi società.

…e ai valori dell’Europa?

L’Europa invece non ha questi meccanismi di tutela. Nessun requisito di fedeltà latente, nessun minimo di adesione alla sua esistenza sembrano poter condizionare la partecipazione di coloro che concorrono alle elezioni del 26 maggio. Sotto gli eufemismi di “cambiare questa Europa” o “facciamo l’Europa degli Stati”, alcuni attori possono permettersi di proporre apertamente un ritorno al XIX secolo rinnegando in tutto o in parte ogni possibile convergenza con il progetto dell’Europa Unita il cui processo di integrazione, paradossalmente, ha dato vita al Parlamento nel quale questi candidati vorrebbero essere eletti.

In altre parole, la mancanza di valori condivisi e l’assenza di un’identità comune fanno spazio a uno stato di anarchia che, oggi più che mai, mette in discussione la sopravvivenza stessa dell’Europa. Nel frattempo, l’Europeismo resta muto, inerme e ripiegato su sé stesso.

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