Roma è unica

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romaRoma è stata raccontata da chi veniva da fuori, provinciali con la spocchia di aver capito tutto di questo posto che non era loro, Pasolini, Fellini, Gadda. L’arroganza di inventarsi addirittura una lingua, fingendo di imitarla.

Ma la periferia è un’altra dimensione rispetto alla provincia, non ha l’ambizione volitiva dell’integrazione. La periferia resta sé stessa. E io non faccio come Pasolini, a cercare l’estetismo del disagio nelle borgate; o come Ferrarotti, con la protervia di capire e riscattare, in un colpo d’occhio solo. A me piacciono le case abusive, post-abusive, condonate, ricostruite, ampliate, completamente ristrutturate, rimbiancate, rifatte, i quartieri residenziali mai veramente sviluppatisi, i boschi in mezzo alle strade.

In trentacinque anni non ho mai vissuto più di venti giorni di seguito fuori da Roma. Non mi piace la gente che non sa di cosa parla. Se sei uno di fuori come Pasolini, allora Roma non è tua madre, altro che Mamma Roma. Se uno di qui, tipo Moravia – che parla del degrado di Roma, che dice che Roma è un garage “e non una vera capitale istituzionale e sociale”, che “è davvero la città eterna, appunto perché nulla vi cambia, la città si ingrandisce sempre di più ma riproduce continuamente i difetti di quando era ancora piccola, raccolta dentro le mura” – a me sembri solo uno snob, un forestiero nella sua stessa città, un traditore, un infame.

Romolo contro Remo. Orazi contro Curiazi. Bernini contro Borromini. L’impero romano contro la repubblica romana. Qui è tutto fratricida. Chi finge una pace è il mio nemico.
Ecco Gadda su Moravia: “La pianti di fare il martire del libero pensiero! E di darsi a ritenere come l’unico martire! Io sono martire quanto e più di lui: Eros & Priapo non si può più ristampare. E non ci sono coiti, mentre lui ha potuto inondare di male chiavate i suoi romanzi”.

Roma non è una città eterna, ma una città retrospettiva. La fantascienza romana quasi non esiste. Noi due soli (1952) di Marino Girolami, Marcello Marchesi e Vittorio Metz: una “bomba yota” ha distrutto tutte le forme viventi, lasciando vagare nella città spettrale Hélène Rémy e Walter Chiari. L’ultimo uomo della terra (1964) di Umberto Ragona, tratto dal racconto di Richard Matheson Io sono leggenda: una città devastata e desertificata da un virus sconosciuto. La decima vittima (1965) di Elio Petri, da La settima vittima di Robert Sheckley: un mondo successivo alla sesta guerra mondiale, e le distese di campi bruciati della periferia così come i palazzi dell’Eur vengono trasfigurati per immaginare una città postuma a se stessa. Eros Puglielli, Tutta la conoscenza del mondo (2001) in cui una presenza aliena trasforma la vita nullificata di alcuni abitanti della periferia nord. Il thriller filorientale pieno di alieni, L’arrivo di Wang dei fratelli Manetti (2011). I libri di Tommaso Pincio, Cinacittà e Pulp Roma: una città investita da una infinita estate che ha costretto molti abitanti a ritirarsi nel Nordeuropa e l’ha trasformata in una specie di metropoli del crimine cinese. Riinnamorarsi – almeno a me accade ogni volta – di Ranxerox di Stefano Tamburini. Questo ragazzo di Talenti morto a nemmeno trent’anni che ha sovrainciso la città delle periferie e del centro storico distrutta dall’abusivismo edilizio creando una metropoli ipertecnologica, postmorale, cyberpunk ante litteram. Lo chiamavano Jeeg Robot. Progetti musicali come quello datati anni Novanta Aliens in Roma. Opere come Roma senza papa di Guido Morselli.

Sto dalla parte di chi non la rimpiange, ma di chi gli immagina un futuro per quanto bizzarro o magari decadente. Perché questa città non può essere giudicata, può essere soltanto amata o pianta, infamata o accusata con legittime prove a carico. Tutte le sue difese sono inutili ma irredimibili, il suo classismo, la sua ferocia contro le persone. Roma doma. Ma è la scusa perché la colpa non sia di nessuno. È una città che si prende le tue responsabilità, per questo sembra così cattiva.

La vita domestica dei comprensori con quella dimensione passivo-aggressivo delle guardiole con i passaggi a livello, la polizia condominiale, le linee per il parcheggio e lo sblocco fissato per terra, nessun esercizio commerciale, l’olgiatizzazione, dello spazio, le villettopoli, le gated communities. Io invece amo lo sprawl urbano, odio il modello Roma veltroniano che è la piazza vuota la domenica: scorgi dietro i cancelli la gente morta o viva come tre milioni di gatti di Schroedinger.

Anche Walter Siti è uno che viene da fuori, un post-pasoliniano che è riuscito a salvarsi dalla povertà contadina, attratto dalla povertà come quelli che hanno un po’ di soldi, ex poveri, a guardare alla povertà altrui, linguistica, morale, come si guarda a un mondo di scampati, da cui si dice di essere stati respinti ma solo perché si sa che ce ne si è allontanati, e quindi si può starci a metà, turistici, osservativi, salvi.

Io amo la grazia del disastro. O amo la grazia dell’educazione urbanistica. Non le vie di mezzo. Non ho pietà di chi ha ridotto questa città alla città del consumo, totale, definitiva, con la scusa dei borgatari che si avvicinavano ai borghesi. Trentasei centri commerciali in diciannove centralità. I palazzinari sono come le famiglie dei papi nel barocco, Quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini. Al resto ci hanno pensato i Toti, i Parnasi, i Caltagirone, gli Scarpellini.

Michele Martuscelli negli anni sessanta definiva “simonia urbanistica”: richiedere soldi ai costruttori dando in cambio corsie preferenziali nelle procedure, diritti di edificare in più, ammorbidimento delle regole.

Ponte Di Nona, una chiesa non finita da anni, una gru immobile, una piazza che si chiama Francesco Caltagirone: la città regalata ai costruttori al “pianificar facendo”. Conosco palazzine intere a Porta di Roma che dovevano essere uffici da piano regolatore, cambiati di destinazione d’uso perché qualche palazzinaro – previdente… – aveva realizzato i tetti troppo bassi (la legge vuole che gli uffici abbiano un’altezza superiore alle abitazioni).

L’unica continuità storica che Roma ha avuto è quella della speculazione edilizia. Ettore Scola ricorda come costruire il personaggio di Aldo Fabrizi di C’eravamo tanto amati, vecchissimo, ormai solo e disabile, che urla roco a Vittorio Gassman «Io non moro», l’aveva pensato così: come un archetipo. La città eterna dei costruttori, da Romolo a Caltagirone.

E poi la gente senza casa. Quelli sotto i ponti, ancora, o i rom nei campi rom immaginati come modello d’integrazione. Milleduecento zingari a via di Salone. Gli sgomberi dei campi rom. Prima ghettizzati, poi cacciati via. La città divisa tra forme concentrazionarie, abusivismo, speculazione edilizia. Per esempio accanto al vuoto del Raccordo Anulare, a distanza di pochi chilometri: un Cie, un centro di identificazione ed espulsione, a Ponte Galeria, e Parco Leonardo.
Caltagirone la presenta così la sua idea di città: «un articolato intervento di sviluppo edilizio riconducibile a un sistema integrato che comprende le funzioni residenziale,
commerciale, direzionale e di intrattenimento. Il concetto di città del futuro inteso come premessa di uno stile di vita atto a superare le molte contraddizioni di una metropoli come Roma, che si è evoluta senza risolvere i problemi».

E invece un Cie? Avete mai visto un Cie? Quello di Ponte Galeria è il più grande di Europa. Da fuori è una specie di caserma gigante. Attaccato al parcheggio dell’entrata nord della Fiera di Roma. Non c’è nessuna indicazione che ci porti, il non-luogo nella landa della non-luoghità. The waste land attrezzata. Questa caserma invisibile è una gabbia di gabbie. Una struttura esterna con altissime sbarre, e poi come a matrioska gabbie più piccole e poi più piccole. All’interno di queste gabbie ci sono delle stanze dove ci sono le persone. Per manifestare la propria indignazione, molto spesso si dice: Sono prigioni!, oppure Sono lager!
In realtà i Cie non sono né l’uno né l’altro. Non sono prigioni, perché non hanno nessuno scopo di riabilitazione o di punizione. Non sono lager perché non sono dei campi di lavoro. Sono dei luoghi limbici in cui non accade nulla, non si sa perché ci si è finiti, non si sa quando se ne uscirà, non si sa come se ne uscirà. Il 40 per cento è espulso, il 60 si disperde. Nel frattempo – un frattempo che può durare fino 18 mesi ma che per molti è un frattempo ciclico (la maggior parte delle persone sono nel Cie per la seconda, terza, anche decima volta) – la vita è ridotta alla nuda vita: mangiare, bere, dormire, pisciare, cacare. La mensa, i letti, i bagni.

I centri commerciali più grandi d’Europa e il centro di identificazione ed espulsione più grande d’Europa. Dal 1999 tutto in funzione, senza scale mobili, con le colonne di ferro che arrivano a sei metri d’altezza, ogni tanto un migrante si cuce la bocca, come fosse un rito antico da tramandare a una nuova comunità.

Se fuori c’è la guerra, immaginata o vera, la città diventerà la patria dei campi e dei divieti, parcheggi a pagamento, zone transennate, telecamere a circuito chiuso: nel medioevo prossimo venturo, un nuovo incastellamento, consorzi, condomìni, Marco Simone, Torre Gaia, tessere elettroniche per entrare e uscire, codici al citofono: la postmetropoli – come si chiama oggi in urbanistica – è fatta di appartenenze semplici, elementari. L’ordine è per il nichilismo
un terreno fertile che esso rimodella per i propri fini.

Il centro di Roma? È un centro commerciale solo più distante, impossibile arrivarci, alieno, remoto, stancante, scomodo rispetto ai competitori periferici pieni di sterminati parcheggi multipiano, ikee platoniche, meraviglie postumane.

Il modello Roma trova nel campo culturale la sua espressione pura per la gestione del potere, nel quindicennio in cui Goffredo Bettini e Gianni Letta sono i numi tutelari della politica romana. Gli anni del centrosinistra, le notti bianche, lo scintillio perlaceo dell’Auditorium, la Nuvola composta di materiale traslucido, il lucore come l’evanescenza. La pax veltroniana. Ambivalente come Giano: la faccia dura addomestica il conflitto sociale, quella liquida confonde la città, in un vortice di fondali che cambiano a tutta velocità. Smaltito l’incantesimo, a terra resta una colata di cemento di settanta milioni di metri cubi.

La lupa che sbrana sé stessa. Una città che fa di sé colonia. In una specie di guerra civile permanente, incruenta, interna, digestiva. Roma come se fossero due città diverse. Centro e periferia. La grande bellezza e Sacro Gra: entrambe rappresentazioni di luoghi fuori dal tempo. Immaginari speculari. Ancora Fellini e ancora Pasolini, ridotti a feticci, a amuleti che non funzionano. Una città eternamente decadente di chiese barocche, palazzi favolosi, terrazze che guardano al sole morente dietro al Colosseo. Oppure, specularmente: un arcipelago di solitudini irriducibili imprigionate nelle borgate mutate oggi in quartieri dormitorio accanto agli Auchan lungo la cintura urbana.

Decoro contro Degrado. Vivere pagando o vivere nell’illegalità. Strisce blu contro Equitalia. E desocializzazione, enclavi, consumo come unica chance dell’esistente, e il territorio come pratica di libertà estrema: cittadini che non chiedono diritti, ma anomia, pura libertà senza impedimenti.

La periferia urbana, il sistema politico, centrosinistra in testa, l’ha pensata sempre come un problema di ordine economico (disoccupazione) o pubblico (devianza) o assistenziale
(marginalità), gli ha dato questo nome orwelliano: nuove centralità. Ààà.
Eppure in questi agglomerati, che deridono l’idea di novità, come edere che strisciano sui roveri millenari, singoli individui di classi eterogenee hanno preso l’unico pezzo rimasto: il diritto alla città come la fame.
Perché lo spazio è cibo, è un mezzo di produzione, e la gerarchia degli spazi corrisponde
a quella dei rapporti di produzione. Lo spazio crea plusvalore: l’aria il suolo anche la luce
o la monnezza sono forze produttive e prodotti.

Tutto fa, tutto produce, persino la distanza tra i luoghi, i rapporti tra centro e periferia studiati nei convegni di urbanistica sono un prodotto da piazzare quando hai finito di smerciare i loft riattati del centro, le case popolari riscattate, il rendering della riqualificazione, l’urbanistica ancella del formalismo degli architetti, che si vendono a chi li chiama a ratificare scelte
più grandi prese in altre sedi.
Quest’urbanistica, espropriata – come una terra dell’Inghilterra del settecento dai levellers – del suo carattere riformista, è diventata pura tecnica gestita dagli esperti. Il dieci per cento
di diritti di agenzia come professione politica, un marchio per garantire la riuscita dell’evento.

Si sa, è così, che ce voi fa, è ‘nnata così, stacce. Roma è una città con troppe case, palazzi e palazzine, condomìni ripittati, rigriffati dalla street art, ristrutturati, raccolti in un dossier di qualche ex addetto all’edilizia sociale che si è riconvertito alla negoziazione immobiliare, investimenti per le banche, in crisi creativa da finanza creativa, appartamenti e stanze mantenute vuote per pompare la domanda e tenere la città eterna in eterna emergenza abitativa.

Sfrattati in auto da fè o nude proprietà e airbnb. Ogni singolo abitante si reinventa, emula i palazzinari, una microspeculazione. Se tutto si gentrifica, e gli affitti salgono, provo anche io a entrare nella bolla. Una piccola speculazione su di sé. La propria vita messa a valore, il proprio spazio: la speculazione degli affitti dei lumpenproletari che si credono ceto medio impoverito. Dato che i vecchi ammontano a un terzo della popolazione, va elemosinata una stanza a casa dei nonni, scommettendo su una morte da infarto per potersi permettere un morbido ritorno dall’Erasmus.

Oppure, puoi sperare che nelle strisce delle terre di nessuno, fra due posti di controllo, ci sia sempre una zona di promesse, desideri che non somigliano a sé stessi ma a progetti: sulla direttrice Tiburtina, prima di Guidonia, le occupazioni dei movimenti che non dicono soltanto diritto alla casa e all’abitare, ma santa pace, sò stanco, do cazzo annamo, prenni na birretta al bengalino all’angolo, la vita nella forma che ora non c’è ma verrà. Insieme ad altro, i movimenti, quelli dei sindacati di base, tutti gli indipendenti, i ciceruacchi, i cola di rienzo: il territorio che ritorna un luogo, un posto del calore.

Riempire lo spazio urbano, colmare il vuoto con le lotte, lotte per la casa e lotte per le condizioni di lavoro: relazione tra persone, legame con il territorio, bruciarsi, più che fondare una città, sfondarla e immergersi, come si fa con chi si ama.

Perché Roma è una città del passato, una città retrospettiva, dell’Impero, del palazzo, del papato, cartolina, museo. La città eterna perché immobile, identica a sé stessa, marmorea. Però Roma è anche la città dei ribelli, di via Rasella, di Mario Schifano e Giosetta Fioroni, delle ceneri di Gramsci al cimitero alla Piramide, del popolo che si mescola, di chi si contamina, delle classi sociali che saltano, di Ciceruacchio che nel Nome del popolo romano di fronte al plotone che lo sta ammazzando recita la sua difesa: “Dice perché te sei impicciato? Dice io so’ carettiere, ma a tempo perso so’ omo. E l’omo se impiccia”, di Lucha y siesta, del Teatro Valle Occupato, di Violet Gibson – una ragazza irlandese – che nel 1926 sparò in faccia a Benito Mussolini sulla piazza del Campidoglio, di Gino Lucetti che sempre nel 1926 lanciò una bomba a mano contro l’automobile di Mussolini, della sterminata estate romana (“l’estate romana, come il Battista rispetto a Cristo, annunciava l’avvento di una città che si affidava alla forza creativa e all’immaginazione”), di giardini malridotti, boschetti insensati, spiazzi interstiziali, orti urbani, dei gruppi coatto-punk come i Bloody Riot di Roberto Perciballi, della suite 541 all’Hotel Excelsior a Roma in cui nel 1994 Kurt Cobain entrò in coma per un cocktail di farmaci, dell’orchestra di Piazza Vittorio, delle scritte sui muri fatte dai condannati a morte nel carcere di via Tasso durante l’occupazione nazista, Addio piccola mia. Non serbarmi rancore. Un bacio, di Cola di Rienzo, di Giorgiana Masi, dell’incrocio tra via Rossini e via Paisiello dove nel 1960 si schiantò con la macchina Fred Buscaglione, dell’incrocio tra via Nomentana e viale Ventuno Aprile dove si andò a schiantare Rino Gaetano nel 1981, dell’appartamento di Santa Maria di Guadalupe dove morì per una dose tagliata lo jazzista Massimo Urbani, la scritta Valerio Vive a via delle Isole Curzolane, della casa dove viveva la madre Carla fino a pochi anni fa, delle due cene di Pasolini il giorno in cui morì – quella a Pommidoro a San Lorenzo e quella al Biondo Tevere a Ostiense, del Pastificio Cerere e della Nuova scuola romana, del Nuovo cinema palazzo, del Grande cocomero a via dei Sabelli, dello sgombero e della resistenza del centro sociale la Torre a Casal de’ Pazzi nel 1994, del casale che è stato rioccupato due anni dopo, in mezzo al parco dell’Aniene, dove si può stare semplicemente sotto il sole, soli in mezzo a un parco sterminato, guardando l’avvallamento vicino al fiume, del lago piovuto dal cielo nel piccolo bosco dietro il centro sociale dell’Ex-Snia Viscosa, dell’occupazione Metropoliz sulla Prenestina diventata un museo a cielo aperto, dei concerti di Jello Biafra che abbiamo visto al Forte a Centocelle, della biblioteca con il teatro a Quarticciolo con gli spettacoli itineranti per le case dei vecchi lotti, degli spettacoli per bambini il sabato mattina al teatrino Baracca e burattini a via Libera al Quadraro, delle pasquette al Parco della caffarella, delle camminate lungo la via Appia antica fino a Santa Maria delle mole, del pellegrinaggio notturno al Divino Amore con partenza a mezzanotte il sabato davanti al palazzo della Fao e arrivo la mattina alle cinque e mezza al santuario, di Pasquino, di Spartaco, dei coatti, dei bombi, dei borgatari, dei rimastini, alla fine, che vuoi o non vuoi, nostra.

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