Startup: speciali categorie di quote e strumenti finanziari partecipativi
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Il decreto crescita 2.0 (d.l. n. 179/2012, convertito, con modificazioni, in l. n. 221/2012) ha introdotto nel nostro ordinamento la “startup innovativa”, definita come società di capitali o cooperativa, non quotata, costituita da non più di sessanta mesi e dotata di determinati requisiti, tra i quali, maggiormente rappresentativi, il divieto di distribuire utili per cinque anni e lo svolgimento di un’attività caratterizzata da elevata innovazione e tecnologia.

Coerentemente con l’obiettivo esplicito di creare un contesto più favorevole all’imprenditorialità e all’innovazione, l’art. 26 del decreto ha esteso alle startup innovative costituite in forma di società a responsabilità limitata, la possibilità di avvalersi di alcuni strumenti giuridici che nella prassi internazionale sono comunemente utilizzati per favorire il reperimento di capitali e l’incentivazione delle risorse umane da parte delle giovani imprese, ma che nel diritto comune italiano sono previsti esclusivamente per le società per azioni: la creazione di diverse categorie di quote di partecipazione al capitale e di strumenti finanziari dotati di particolari diritti partecipativi; la possibilità di compiere operazioni su quote proprie.

Si noti peraltro che il c.d. “investment compact” (d.l. n. 3/2015) ha introdotto nel nostro ordinamento la figura della Piccola Media Impresa innovativa (“PMI innovativa”), e ha esteso anche alle PMI innovative costituite in forma di s.r.l. le deroghe al diritto societario di cui all’art. 26 del decreto crescita 2.0. Nel prosieguo del testo ci si riferirà dunque alla “s.r.l. innovativa” per indicare sia la startup innovativa, sia la PMI innovativa, costituita in forma di s.r.l.

Il comma 2 dell’art. 26, d.l. 179/2012, prevede che l’atto costitutivo di una start-up innovativa costituita in forma di s.r.l. possa creare una o più categorie di quote di partecipazione, fornite di diritti diversi e che, nei limiti imposti dalla legge, possa determinarne liberamente il contenuto, anche in deroga a quanto previsto dall’articolo 2468, commi 2 e 3, c.c..

Alle s.r.l. ordinarie non è permesso creare categorie di quote oggettivamente determinate; il diritto comune intende infatti assicurare il collegamento soggettivo tra la quota sociale e la persona del socio che la possiede, caratteristico del tipo societario s.r.l. e accentuato dalla riforma del diritto societario del 2003.

I soci di s.r.l. innovative possono invece attribuire diritti speciali non solo alla persona del singolo socio (come già avviene per le s.r.l. ordinarie), ma anche a un’intera categoria di quote astrattamente individuate, come accade per le s.p.a.. Il legislatore ha dunque ritenuto preponderante, per la s.r.l. innovativa, l’esigenza concreta di favorire il reperimento di capitali strumentali allo sviluppo, rispetto alla connotazione personalistica del tipo societario.

La caratteristica principale delle speciali categorie di quote previste per le s.r.l. innovative è la loro atipicità, seppure, come si vedrà, nei limiti imposti dalla legge. I soci possono dunque creare con grande libertà categorie di quote dotate di diversi diritti patrimoniali e/o amministrativi. Si tratta di caratteristiche che incidono principalmente sul diritto agli utili o alle perdite, sul diritto di voto in assemblea e di nomina degli organi sociali, ma non solo. Si pensi, ad esempio, a categorie di quote che attribuiscano il diritto di recesso dalla società a particolari condizioni, o gravate da particolari limitazioni alla circolazione.

L’art. 26, comma 3, d.l. 179/2012 autorizza espressamente, anche in deroga all’art. 2479, comma 5, c.c., la creazione di categorie di quote (i) che non attribuiscano diritti di voto, (ii) che attribuiscano diritti di voto in misura non proporzionale alla partecipazione detenuta dai soci, ovvero (iii) che attribuiscano diritti di voto limitati a particolari argomenti o subordinati al verificarsi di particolari condizioni (non meramente potestative). E’ discusso se a queste fattispecie vada applicato analogicamente l’art. 2351, comma 2, c.c. che, per le s.p.a., limita il valore complessivo delle azioni senza diritto di voto, o con diritto di voto limitato, alla metà del capitale sociale. Alla luce poi della recente novella dell’art. 2351, comma 4, che ora autorizza l’emissione di azioni a voto plurimo nelle s.p.a., pare ammissibile la creazione di quote a voto maggiorato anche nella s.r.l. innovativa, restando tuttavia dibattuto se si applichi, come per le s.p.a., il limite di tre voti per singola azione.

Come si è detto, l’ampia discrezionalità privata nella costruzione delle categorie speciali di quote trova un argine nei “limiti imposti dalla legge”. E’ ragionevole identificare tali limiti nei principi generali dell’ordinamento, nelle norme imperative di funzionamento delle s.r.l. non derogate dal legislatore speciale e nei requisiti essenziali della fattispecie startup (o PMI) innovativa. Si pensi al divieto di patto leonino (art. 2265 c.c.), che impedisce, per tutti i tipi societari, di escludere uno o più soci da ogni partecipazione agli utili e/o alle perdite; alla norma (art. 2479, commi 2 e 4, c.c.), che, per le s.r.l., richiede una deliberazione assembleare per modificare l’atto costitutivo; infine, al divieto, previsto per le startup innovative dall’art. 25 del decreto crescita 2.0, di distribuire utili per un periodo di cinque anni dalla costituzione. Vista poi l’assimilazione della disciplina della s.r.l. innovativa a quella prevista per le s.p.a., va altresì valutata in un’ottica interpretativa sistematica l’applicabilità alle s.r.l. innovative dei limiti previsti per le s.p.a. in tema di categorie azionarie, pur in assenza di uno specifico richiamo del legislatore speciale (in questo senso il dibattito, richiamato sopra, sull’applicabilità dell’art. 2351 alla s.r.l. innovativa).

Il comma 7 dell’art. 26, d.l. 179/2012 ammette la possibilità che l’atto costitutivo di una s.r.l. startup innovativa preveda, a seguito dell’apporto di soci o di terzi anche di opere o di servizi, l’emissione di strumenti finanziari forniti di diritti patrimoniali o anche di diritti amministrativi, con esclusione del diritto di voto nelle decisioni dei soci. Nonostante l’assenza di un richiamo esplicito, la norma riproduce il contenuto dell’art. 2346, comma 6, c.c. che prevede la possibilità di emettere strumenti finanziari partecipativi (“SFP”) nell’ambito della disciplina della s.p.a.

Anche questo intervento è evidentemente teso a favorire il reperimento di risorse finanziarie da parte della startup. Gli SFP si pongono infatti in una posizione intermedia tra capitale di rischio e capitale di debito, potendo offrire notevoli vantaggi sia agli investitori, i quali, oltre a privilegi patrimoniali, potranno vedersi attribuiti diritti gestori o di controllo normalmente riservati ai soci, sia ai soci fondatori, i quali non vedranno diluita la propria partecipazione, potendo al contempo evitare di appesantire la struttura finanziaria della società (qualora gli SFP non vengano costruiti come strumenti di debito).

La natura ibrida degli SFP ha causato accesi dibattiti in merito alla loro qualificazione giuridica e alla disciplina a essi applicabile. Non è questa la sede per un approfondito esame della questione; ci limitiamo a rilevare che, a nostro avviso, gli SFP sono sostanzialmente delle scatole vuote, suscettibili di essere riempite di volta in volta dall’autonomia privata, sulla base delle esigenze della società emittente e dei soggetti terzi interessati a finanziarla, nei limiti individuati al precedente paragrafo a proposito delle speciali categorie di quote, e negli ulteriori limiti individuati dalla legge speciale, la quale: i) esclude che agli SFP possa essere attribuito il diritto di voto nelle decisioni dei soci; e ii) prevede che tali strumenti possano essere dotati di “diritti patrimoniali o anche di diritti amministrativi”.

Pare dunque che ai sottoscrittori di SFP vada sempre riconosciuto almeno un diritto patrimoniale, mentre i diritti amministrativi potrebbero anche essere assenti; essi pertanto non paiono qualificare la fattispecie degli strumenti finanziari partecipativi, ma possono arricchirne il contenuto in modo funzionalmente coordinato ai sottesi diritti patrimoniali. Diritti patrimoniali che, astrattamente, possono essere ricondotti, vuoi a una partecipazione agli utili, e in questo caso lo strumento partecipativo assumerebbe connotati di quasi-equity, vuoi al rimborso del capitale, nel qual caso si tratterebbe sostanzialmente di uno strumento di debito (si noti peraltro che questa posizione si pone in contrasto con quella che ritiene gli SFP esclusivamente funzionali alla raccolta di capitale di debito).

Nel primo caso, l’apporto del terzo andrebbe contabilizzato a patrimonio netto, con la creazione di una riserva indisponibile (tuttavia la questione è dibattuta); nel secondo caso, come debito della società. Si noti, peraltro, che in caso di perdite, le riserve vengono erose prima del capitale sociale, ed è controverso se l’autonomia privata possa derogare ai principi relativi all’ordine di imputazione delle perdite. Per ovviare a questa circostanza, che vedrebbe il terzo finanziatore più vulnerabile del socio, è stata ipotizzata la dissociazione tra diritti patrimoniali del terzo, aventi natura contrattuale, ed erosione della riserva creata a fronte degli apporti versati: in pratica, le parti avrebbero la facoltà di sancire la sopravvivenza dei diritti attribuiti al terzo a fronte dell’emissione degli SFP, nonostante l’erosione della riserva indisponibile.

La possibilità di emettere strumenti finanziari partecipativi deve essere prevista in statuto e i soci devono disciplinarne il contenuto, le condizioni di emissione ed eventualmente di circolazione, nonché le eventuali sanzioni in caso di inadempimento, anche tramite un apposito regolamento, direttamente in statuto.
L’art. 27 del decreto crescita 2.0, istituisce un regime fiscale e contributivo agevolato per gli strumenti finanziari partecipativi (così come per le azioni o quote) emessi per remunerare l’apporto di opere e servizi resi in favore di start-up innovative da parte di dipendenti, amministratori e collaboratori continuativi (c.d. piani di incentivazione del personale), ovvero di consulenti, professionisti e, in generale, fornitori di opere e servizi diversi dai lavoratori dipendenti e dai collaboratori continuativi delle stesse (c.d. “work for equity”, anche se, nel caso degli SFP, l’utilizzo del termine equity è impreciso). Infine, ai sensi dell’art. 30 del decreto crescita 2.0, gli SFP possono costituire oggetto di un’offerta al pubblico tramite portali on line per la raccolta di capitali.

Nelle s.r.l. innovative è consentito derogare al divieto di compiere operazioni sulle proprie partecipazioni previsto per s.r.l. ordinarie dall’art. 2474 c.c., qualora l’operazione sia compiuta in attuazione di piani di incentivazione che prevedano l’assegnazione di quote di partecipazione a dipendenti, collaboratori o componenti dell’organo amministrativo, prestatori di opera e servizi anche professionali (art. 26, comma 6, d.l. 179/2012).

Le operazioni su quote proprie vietate dall’art. 2474 c.c. (e ammesse per le s.r.l. innovative) sono:

(i) acquistare o accettare in garanzia quote proprie; ovvero

(ii) accordare prestiti o fornire garanzia per la loro sottoscrizione. Si noti peraltro fin d’ora che la deroga all’art. 2474 c.c. è consentita solo se l’operazione è preordinata alla creazione di incentivi al capitale umano della società: restano quindi vietate le operazioni di natura finanziaria sulle quote proprie di s.r.l. innovative.

Anche questa deroga al diritto comune si propone di ampliare e ottimizzare la base e la struttura finanziaria della s.r.l. innovativa: attraverso strumenti di work for equity si vuole vincolare all’andamento economico della società la remunerazione dei soggetti che vi prestano la loro opera. Come si è visto, lo strumento di incentivazione può essere diretto a dipendenti e amministratori, ma anche a collaboratori, professionisti e più in generale a prestatori d’opera e servizi della società.

Nonostante l’assenza di un rinvio esplicito del legislatore speciale, si ritengono applicabili anche alla s.r.l. innovativa i limiti previsti per le s.p.a. dall’articolo 2357 c.c. all’acquisto di azioni proprie e dal sesto comma dell’art. 2358 c.c. alle altre operazioni sulle proprie azioni. In particolare: (i) la società non può acquistare azioni proprie (né compiere altre operazioni su azioni proprie) se non nei limiti degli utili distribuibili e delle riserve disponibili risultanti dall’ultimo bilancio regolarmente approvato; (ii) possono essere acquistate soltanto azioni interamente liberate; e (iii) l’acquisto deve essere autorizzato dall’assemblea (che fissa le modalità e i limiti dell’operazione).

Concludendo, pare utile evidenziare che l’art. 2357-ter c.c., che si ritiene applicabile analogicamente alle s.r.l. innovative, stabilisce che: (i) gli amministratori non possono disporre delle azioni proprie della società, se non previa autorizzazione dell’assemblea che ne stabilisce le modalità; (ii) finché le azioni restano di proprietà della società, il diritto di voto è sospeso (ma le azioni proprie sono comunque computate ai fini del calcolo delle maggioranze e delle quote richieste per la costituzione e le deliberazioni dell’assemblea) e il diritto agli utili e il diritto di opzione sono attribuiti proporzionalmente alle altre azioni;  infine, (iii) l’acquisto di azioni proprie comporta, dal punto di vista contabile, una riduzione del patrimonio netto di eguale importo, tramite l’iscrizione nel passivo del bilancio di una specifica voce, con segno negativo.

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