«A rischio 1 milione di occupati senza una transizione sostenibile»
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«Se non gestiamo adeguatamente la transizione green e la decarbonizzazione, privilegiando un percorso che sia sostenibile non solo ambientalmente, ma anche sotto il profilo economico e sociale, rischiamo di mettere a rischio un milione di posti di lavoro tra i settori che producono energia (downstream e upstream) e le industrie energivore. Occorre dare a tutti l’opportunità di rimanere competitivi assicurando approvvigionamenti energetici a costi accessibili». Giuseppe Ricci, past president di Confindustria Energia, va dritto al cuore delle questioni da profondo conoscitore del settore in cui è entrato, attraverso la “porta” della raffinazione, come manager di Eni nel 1985 per poi assumere ruoli di crescente responsabilità fino a ricoprire oggi quello di direttore generale Energy Evolution del gruppo. Da poco ha passato ufficialmente il testimone a Guido Brusco, dg Natural Resources di Eni, dopo due mandati al timone della federazione.

Partiamo dal nuovo Pniec che il ministero sta finalizzando per poi trasmetterlo a Bruxelles. Che giudizio ne date?
Sulla base delle prime indiscrezioni, si vede che questo nuovo Piano, rispetto alla vecchia strategia del 2019, tende a raggiungere il più possibile gli obiettivi al 2030 fissati dal pacchetto Ue del Fit for 55, ma, al tempo stesso, evidenzia l’estrema difficolta di centrarli e l’eccessivo ottimismo che c’era nel vecchio Pniec. Mancano solo 7 anni a quel traguardo e il nuovo Piano sembra prediligere un approccio più realistico, che non considera solo la dimensione ambientale della transizione, ma anche quella economica e sociale, unitamente ai profili legati alla sicurezza energetica. Questa scelta appare in linea con le osservazioni che, come associazione, abbiamo fornito al ministero sul documento, contribuendo al suo aggiornamento.

Quali sono i fronti più critici?
Per noi c’è innanzitutto un tema a monte perché l’Europa, con le sue politiche di decarbonizzazione, segue un indirizzo che vede tutti sullo stesso piano. E, invece, ci sono delle differenze strutturali da Paese a Paese, non si può dire che una soluzione va bene per qualsiasi contesto. Perché è evidente che, per esempio sulle rinnovabili, un parco eolico nel Mare del Nord non è comparabile con un impianto solare in Pianura Padana. Con differenze notevoli in termini di efficienza e quindi di contributo alle filiere a valle.

Come federazione avete sollevato molte osservazioni critiche sui target chiesti ai settori non Ets (civile, trasporti e agricoltura e servizi) in termini di taglio delle emissioni. Cosa non vi convince in quel percorso?
Non mettiamo in discussione il target complessivo di riduzione. Anzi, abbiamo recepito i sempre più sfidanti obiettivi europei, ma nutriamo perplessità su alcuni dei sub-obiettivi. In particolare, il target di decarbonizzazione dei settori non Ets, che fissa al 2030 un taglio del 43,7% delle emissioni rispetto ai livelli del 2005, risulta molto critico. Spingere su quei target significa, per esempio, accelerare eccessivamente l’efficientamento degli edifici con il rischio di nuove bagarre come quelle innescate dal superbonus e senza che sia chiaro quanti milioni di tonnellate di CO2 abbiamo ridotto. Per questo, abbiamo suggerito di puntare su tutte le soluzioni low carbon, tenendo sempre presente che, se una soluzione non ci consente di tenere il giusto passo, le altre possono sopperire.

Lei torna spesso sull’Europa. Cosa manca ora a Bruxelles?
Manca un approccio non ideologico che sia in grado di valutare tutte le tecnologie disponibili in modo neutro. Va bene promuovere l’elettrico, ma non considerarlo la soluzione di tutti i mali. Soprattutto se ci sono altre tecnologie, dai biocarburanti all’idrogeno blu (prodotto cioè da fossili in abbinamento con la cattura e lo stoccaggio del carbonio, ndr), ai processi di valorizzazione di rifiuti e scarti o alla Ccs, che sono complementari all’elettrico e per certe applicazioni meno costose.

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