«Banche deboli fuori dal mercato»

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«Le banche deboli devono uscire dal mercato. È una cosa che prendiamo molto sul serio». Il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi, alla vigilia della sua partecipazione al Forum di Davos – dove si aspetta lodi per aver salvato l’euro e critiche per aver fatto troppo poco – lancia un segnale molto preciso alle élites raccolte nella cittadina svizzera. In un’intervista alla Neue Zürcher Zeitung ricorda quanto la Bce sia determinata ad avere banche solide in Eurolandia.
I motivi sono semplici: «Le banche deboli non fanno prestiti», e creano «tensioni per l’intera economia». Sono due allora gli obiettivi che vengono posti a rischio, la stabilità finanziaria ma anche il funzionamento corretto della politica monetaria. «Effettivamente penso che la nostra politica monetaria diventerà più efficace se la vigilanza sarà fatta bene, perché banche sane assicureranno alla politica monetaria di essere ben trasmessa all’economia», ha detto Draghi difendendo la scelta di attribuire alla Bce anche la Vigilanza bancaria.
La controprova è offerta dal Giappone, dove «negli anni 90 un debole settore bancario ha impedito la crescita per anni». La Bce non vuole trovarsi in una situazione simile, fatta di stagnazione e deflazione. Il suo messaggio alle banche è dunque molto forte: occorre fare luce sulla salute delle singole aziende di credito. Senza paure. «Nel sistema finanziario in generale – ha spiegato – la luce è sempre meglio dell’oscurità. Solo rivelando le debolezze nel settore bancario possono essere prese delle misure per correggerle, attraverso la ricapitalizzazione, la ristrutturazione o la chiusura delle banche». Nessuno può pensare che nascondere la verità possa garantire stabilità. «Senza trasparenza ha aggiunto – le debolezze resteranno»: le debolezze «sono lì, che le si rivelino o no».
Non ci sarà spazio, è allora la promessa di Draghi, per scorciatoie. La Bce chiede chiarezza sia nella valutazione della situazione che nelle procedure di salvataggio: «Ci sono chiare procedure di intervento (bail-in) che chiameranno i creditori delle banche alle loro responsabilità», ha detto ricordando gli impegni degli Stati a usare «il denaro dei contribuenti solo come ultima spiaggia». Sottolinea anche, però, il fatto che dieci anni per “riempire” il fondo di salvataggio è un tempo «troppo lungo».
Solo con un sistema efficiente di controllo e di intervento si potranno infatti evitare ulteriori problemi per Eurolandia. È vero che «nessuno sa da dove verà la prossima crisi»; ma proprio per questo motivo occorre «rendere il sistema finanziario più resiliente nel suo complesso». È del resto la buona salute delle banche di Eurolandia che permette di non temere la deflazione, anche se una parte almeno dell’attuale disinflazione è legata «alle condizioni di finanziamento molto differenti e frammentate in Eurolandia», oltre che alla necessità delle aziende di alcuni paesi di frenare o abbassare i prezzi per guadagnare competitività.
La volontà di Draghi di sottolineare l’importanza di un settore bancario sano si spinge fino al punto da sminuire il ruolo delle sue parole (quel «faremo tutto quanto è necessario», «whatever it takes» di luglio 2012) nel calmare i mercati : il loro effetto «è durato così a lungo solo perché i Governi si sono accordati, subito dopo, sull’Unione bancaria».
Il ruolo dei Governi resta ancora oggi importante, secondo Draghi. La crescita di Eurolandia è ancora «debole», e le probabilità maggiori puntano a un suo rallentamento. Occorre allora un consolidamento fiscale più orientato alla crescita, con «meno spese correnti, meno tasse e più spese su infrastrutture e capitale umano», insieme alle «riforme strutturali». La Bce farà quel che deve sul fronte monetario: è pronta a intervenire con tutti gli strumenti a sua disposizione anche se, assicura Draghi, non c’è da temere né la deflazione né tantomeno l’inflazione, che non risalirà certo, come avveniva in passato, a causa della ripresa: «La disoccupazione è troppo alta e la capacità produttiva è sottoutilizzata».

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