Banche, sul 2013 l’incubo delle tasse

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La stagione dei bilanci annuali lascia nel sistema bancario italiano un retrogusto un po’ amaro. Il recupero di performance (in molti casi realizzato attraverso il trading sui titoli di Stato acquistati a leva sui finanziamenti della Bce) è stato in buona parte «annacquato» dalla svalutazione dei crediti in portafoglio.
La moral suasion di Bankitalia e del governatore Ignazio Visco ha indotto gli istituti ad aumentare gli accantonamenti e a rettificare la valutazione dei crediti problematici.
La «politica» di Via Nazionale si è tradotta per i primi cinque gruppi italiani (Intesa, Unicredit, Mps, Banco e Ubi) in oltre 18,7 miliardi di rettifiche nette su crediti. La scelta, più o meno obbligata, consente di ottenere una rappresentazione patrimoniale adeguata dell’attività degli istituti. Se la prosecuzione della crisi determinerà situazioni di insolvenza (o di ritardi nei pagamenti), le banche italiane potranno tranquillamente affermare di aver già fatto il grosso del lavoro sul bilancio.
Non è un caso che le prime tre big del settore abbiano messo mano con il lanciafiamme al loro portafogli. Unicredit ha fatto pulizia per 9,6 miliardi raggiungendo un livello di copertura del 43,4%, Intesa ha svalutato per 4,3 miliardi raggiungendo un coverage ratio del 42,7%, mentre il Monte dei Paschi di Siena ha fatto pulizia per 2,7 miliardi riportando il tasso al 41 per cento.
Le percentuali alle quali si è giunti dopo sforzi non indifferenti non sono poi così eclatanti se comparate con la media europea, ben superiore al 50 per cento. Ma, al di là dei criteri di classificazione che Bankitalia ha reso particolarmente stringenti, occorre ricordare che se per gli istituti italiani si computassero le garanzie (i collateral spesso rappresentati da immobili) si salirebbe subito sopra il 150 per cento. La loro complicata liquidabilità (in Italia ci vogliono 7 anni per vendere un appartamento o un capannone provenienti da una foreclosure), tuttavia, ha determinato il nuovo giro di vite «ispirato» da Palazzo Koch.
Questo discorso si combina con la variabile fiscale. Ad esempio, il gruppo Intesa ha versato oltre 1,3 miliardi di imposte nonostante gli interventi effettuati non solo sulle rettifiche ma anche sulle svalutazioni (280 milioni). Unicredit è riuscito a ottenere un credito di 1,5 miliardi optando per l’affrancamento degli avviamenti (2 miliardi) di cui non aveva beneficiato nel 2011. Il Monte dei Paschi, invece, è andato in credito di 385 milioni in quanto ha dedotto dall’Ires l’Irap versata negli esercizi precedenti al 2012. Se non avessero fatto ricorso a questi appigli, le grandi banche si sarebbero trovate nella stessa situazioni di Generali che, dopo una maxipulizia di portafoglio, ha visto il tax rate aumentare al 77% perché su quelle svalutazioni in Italia ha pagato circa 1,4 miliardi di tasse.
Se Unicredit e Mps sono riuscite ad abbassare il carico fiscale, lo stesso non vale per gli altri gruppi. E se si considera che in Italia 35mila bancari tra prepensionamenti ed esternalizzazioni sono in uscita dal mercato del lavoro, è chiaro che il recupero di efficienza – se la crisi non avrà uno sbocco positivo – non potrà non essere perseguito che attraverso la diminuzione delle spese ordinarie, cioè del numero dei dipendenti e di quello delle filiali, come già previsto dalla stragrande dei piani industriali. E i sindacati sono già sul piede di guerra.

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