Carige Genova per noi, ma chi mette i soldi?

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Giovedì si saprà. Piero Luigi Montani presenterà per l’approvazione al consiglio di amministrazione di Banca Carige i conti a chiusura del 2013, uno degli anni più drammatici nella centenaria storia dell’istituto genovese, l’antica Cassa di risparmio che negli ultimi dodici mesi sta recidendo i legami con un passato fattosi insostenibile, non solo per cause esogene. Le aspettative sono per una rigorosa politica di bilancio che si può tradurre in una estrema severità nella valutazione dei crediti, che comporterà un aumento delle svalutazioni. Difficile pensare a un utile. Più probabile che Montani apra il piano industriale a un progetto di concreta riduzione dei costi e a un recupero di redditività. Un prospettiva nella quale andrà a inserirsi, a breve, anche l’aumento di capitale da 800 milioni di euro ormai non più differibile nel tempo, che porterà necessariamente Carige a cambiare assetto proprietario.
I conti
Montani è arrivato a Genova, dalla Popolare di Milano, il 5 novembre scorso ereditando dal direttore generale Ennio La Monica una situazione estremamente complessa. Il bilancio al 30 settembre, che Montani ha licenziato, ha presentato un conto economico in perdita per 1,3 miliardi di euro contro i 146 mila euro di utili registrati un anno prima. Un risultato su cui ha pesato il (quasi) quadruplicamento delle rettifiche sui crediti, passate da 118 milioni a 393 milioni. Una posta che ha di fatto contribuito a dimezzare il risultato netto della gestione finanziaria (da 798 milioni a 371 milioni). Se questo è stato l’impatto di Montani, viene difficile, in costanza di condizioni macro economiche, pensare a una brusca variazione di rotta: chi lavora vicino al top manager evidenzia una ricerca della trasparenza quasi maniacale in tutte le poste, a solo beneficio degli stakeholder della banca. Probabile dunque che Carige, venerdì mattina a mercati chiusi, annunci una perdita a valere sull’intero 2013 anche superiore agli 1,3 miliardi di euro registrati nel terzo trimestre.
Il piano
In queste ore Montani sta mettendo a punto gli ultimi dettagli del piano industriale destinato a riportare in utile la banca genovese, come spera il presidente Cesare Castelbarco Albani. Sul fronte del taglio dei costi, alla Carige, si sta ragionando su un’ipotesi di razionalizzazione della rete agenziale anche alla luce dell’impatto del web-banking . Negli anni scorsi si creò Carige Italia, dove venne fatta confluire tutta la rete basata all’esterno della Liguria. Un pacchetto che sembrerebbe pronto per la vendita, anche se l’ipotesi è già stata smentita e soprattutto nessuno sembra oggi intenzionato ad acquisire sportelli bancari. La razionalizzazione toccherà probabilmente le strutture centrali della banca e con ogni probabilità anche le sue derivate assicurative. Le due compagnie attive nel ramo Vita e nel Danni sono in vendita da un anno. La focalizzazione sul business bancario cozza con la differenziazione in ambito assicurativo. Solo che manca l’acquirente. La lunga ispezione delle autorità di Vigilanza e l’improvvisa disponibilità di compagnie sul mercato italiano (dal Fata al polo che fu dei Ligresti) non ha giocato a favore della cessione del gruppo genovese. Ma uno spiraglio si sta aprendo e potrebbe diventare qualcosa di concreto nel corso della seconda metà dell’anno.
L’aumento
Avviata questa sostanziale cura dimagrante, Montani chiederà ai soci stabili e al mercato di mettere mano al portafoglio per aumentare la solidità dell’istituto, già alle prese con le verifiche sugli attivi messe in atto dalla Banca centrale europea in vista dell’Unione bancaria. Non c’è più tempo per rinviare: la delega dell’assemblea al cda scade lunedì prossimo, 31 marzo. Il primo tra i soci è la Fondazione, che nelle ultime settimane ha venduto sul mercato alleggerendo di quasi il 10 per cento la propria posizione complessiva, passata dal 49,429 per cento al 45,163 per cento. Nella lista dei soci importanti figura, con un pacchetto dell’8,48 per cento, anche Mediobanca: si tratta di azioni della Fondazione date in pegno, a garanzia di un finanziamento ottenuto, su cui la banca di Piazzetta Cuccia si riserva, in sede di aumento, di decidere cosa fare. Concretissima invece è la posizione dell’altro socio industriale, i francesi di Bpce, che da tempo controllano poco meno del 10 per cento di Carige. Saranno loro, oltre ai piccoli soci indistinti che tutti assieme valgono circa il 36 per cento della banca a dover mettere mano al portafoglio da giugno in avanti.
Le incognite, al momento sono due. La prima riguarda la Fondazione: quale strategia perseguirà, visto che non dispone delle munizioni necessarie per rispondere pro quota alla chiamata alla cassa? Le azioni cedute nei giorni scorsi fanno pensare a una strategia simile a quella messa in atto dalla Fondazione Mps a Siena: vendere subito i titoli sul mercato anziché aspettare e cedere i diritti. Su quale quota si ricollocherà la Fondazione Carige dopo l’aumento non è ancora chiaro. E questo apre alla seconda incognita: costituito il consorzio di pre-underwriting a garanzia del buon esito dell’aumento, dove finiranno le azioni inoptate? C’è chi vede in Andrea Bonomi e nella sua Investindustrial il socio forte capace di occupare lo spazio lasciato dalla Fondazione. L’ipotesi è sempre più vicina.

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