Cessione di un’azienda per porre nel nulla la pretesa del creditore
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Costituisce abuso del diritto e non merita tutela giudiziaria la cessione di un’azienda effettuata allo scopo di porre nel nulla la pretesa del creditore dell’impresa cedente. Lo afferma il Tribunale di Reggio Emilia (giudice Gianluigi Morlini) in una sentenza dello scorso 7 luglio.
Un professionista aveva ottenuto un titolo esecutivo giudiziale contro una srl. Prima della formazione del titolo stesso, la società aveva ceduto la propria azienda a una snc, a cui il creditore aveva poi notificato il precetto chiedendo il pagamento di quanto gli doveva la srl. La snc ha allora proposto opposizione, sostenendo che il titolo non era utilizzabile nei suoi confronti poiché non si era verificata una successione nel diritto controverso (articolo 111, comma 4, del Codice di procedura civile).
Inoltre, il debito della Srl non risultava dai libri contabili e dunque non si poteva far riferimento neppure all’estensione di responsabilità a carico dell’acquirente dell’azienda, prevista dall’articolo 2560, comma 2, del Codice civile.
Nel respingere l’opposizione, il Tribunale rileva, innanzitutto, che «le due società hanno compagine sociale quasi identica e comunque sovrapponibile», e che l’operazione posta in essere da esse è «esclusivamente finalizzata all’elusione della pretesa creditoria». Il giudice osserva quindi che il Codice civile «non contiene una previsione generale di divieto di esercizio del diritto in modo abusivo, ma solo specifiche disposizioni in cui viene sanzionato l’abuso con riferimento all’esercizio di determinate posizioni soggettive». Come, ad esempio, quella dell’articolo 833, che vieta gli atti che hanno solo lo scopo di nuocere o recare molestia ad altri. O, ancora, le norme che sanzionano la concorrenza sleale (articolo 2598) e quelle che prevedono la decadenza dalla responsabilità genitoriale del padre o della madre che, abusando dei propri poteri, procura al figlio un grave pregiudizio (articolo 330).
Tuttavia, la dottrina prevalente – prosegue il Tribunale – ritiene che da tali ipotesi si possa desumere il principio del «divieto di esercizio del diritto in modo abusivo» e quindi la mancanza di tutela quando il diritto stesso «sia esercitato per una finalità che ecceda i limiti stabiliti dalla legge». Infatti, i precetti di buona fede e correttezza previsti dal Codice civile sono regole di ordine pubblico, «che consentono di identificare, nel caso concreto, nuovi divieti e nuovi obblighi».
L’abuso del diritto è dunque un istituto generale dell’ordinamento, in quanto – conclude il Tribunale, citando la sentenza 20106/2009 della Cassazione – «criterio rivelatore della violazione dell’obbligo di buona fede oggettiva».
Nel caso esaminato, la cessione dell’intera azienda con la contestuale messa in liquidazione della cedente è un’operazione «volta a rendere concretamente inesigibile il credito» del professionista: infatti, il titolo esecutivo è «divenuto opponibile solo nei confronti di una società non più esistente e svuotata da ogni patrimonio», e, al contempo, inutilizzabile verso la società «avente causa dalla prima, che con il suo patrimonio ne ha continuato l’attività».
Per queste ragioni, il Tribunale dichiara quindi che il professionista «ha diritto di agire esecutivamente per la somma precettata» contro la snc.
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