La Corte di cassazione conferma così la sanzione pecuniaria, determinata sulla base di quanto stabilito dal decreto 23 del 2001, a carico di Citibank decisa dalla Corte d’appello di Milano, pur escludendo l’aggravante del profilo di rilevante entità. La pronuncia chiude così uno dei tasselli della vicenda Parmalat, nel quale l’incriminazione a carico del responsabile della gestione ordinaria delle relazioni con il gruppo (allora) di Calisto Tanzi vedeva contestata l’alterazione del prezzo dei titoli del gruppo per effetto della diffusione di notizie false su un contratto di associazione in partecipazione.
Se in primo grado anche l’ente era stato assolto, ora la Cassazione ricorda che il proscioglimento era stato deciso senza una specifica argomentazione, come automatico effetto dell’assoluzione del manager inizialmente accusato. Proprio questo automatismo, già smontato in precedenza dalla Cassazione investita di un ricorso “per saltum” del Pm, è ora nuovamente considerato insussistente.
La posizione della società e della persona fisica vanno infatti divise. A confermarlo c’è infatti, avverte la sentenza, quanto previsto dalla relazione allo stesso decreto 231, secondo la quale è assolutamente autonoma la possibilità di procedere nei confronti dell’ente a prescindere dall’accertamento della responsabilità dell’autore del reato presupposto. Proprio sul versante della responsabilità d’impresa, asseriva la relazione, la mancata identificazione della persona fisica rappresenta un «fenomeno tipico».
L’illecito che può essere imputato alla società però, puntualizza ancora la Cassazione, non consiste in una responsabilità sussidiaria per il fatto altrui, sulla falsariga della responsabilità civile ordinaria da reato del dipendente oppure di quella prevista dall’articolo 197 del Codice penale sull’obbligo delle persone giuridiche al pagamento delle multe o delle ammende. L’ente è invece sanzionato per fatto proprio e a fondare la sua responsabilità c’è la possibilità da parte della pubblica accusa di contestare una colpa di organizzazione, se non addirittura la commissione del reato come elemento di politica aziendale.
In questo senso, facendo riferimento alla sentenza ThyssenKrupp (sentenza 38343 del 2014 a Sezioni unite), può configurarsi una colpa per l’infrazione all’obbligo imposto alle persone giuridiche di prevenire la commissione di alcuni reati, «adottando iniziative di carattere organizzativo e gestionale in base a un “modello” che individua i rischi e delinea le misure atte a contrastarli. E la colpa dell’ente consiste nel non avere ottemperato a tale obbligo».
La circostanza che questa colpa diventi evidente e rilevante per l’imputazione dell’illecito solo per effetto della commissione di uno specifico reato, compreso nella lista dei delitti presupposto, non compromette la natura personale della responsabilità.
Questa va infatti fatta derivare da un deficit organizzativo che riguarda «la mancata adozione di un modello precauzionale astrattamente idoneo a prevenire non solo e non tanto la singola rottura dello schema legale realizzata dal soggetto imputato del reato presupposto, ma le carenze strutturali e di sistema che accadimenti di quella fatta alimentano e favoriscono».
La posizione della società e della persona fisica vanno infatti divise. A confermarlo c’è infatti, avverte la sentenza, quanto previsto dalla relazione allo stesso decreto 231, secondo la quale è assolutamente autonoma la possibilità di procedere nei confronti dell’ente a prescindere dall’accertamento della responsabilità dell’autore del reato presupposto. Proprio sul versante della responsabilità d’impresa, asseriva la relazione, la mancata identificazione della persona fisica rappresenta un «fenomeno tipico».
L’illecito che può essere imputato alla società però, puntualizza ancora la Cassazione, non consiste in una responsabilità sussidiaria per il fatto altrui, sulla falsariga della responsabilità civile ordinaria da reato del dipendente oppure di quella prevista dall’articolo 197 del Codice penale sull’obbligo delle persone giuridiche al pagamento delle multe o delle ammende. L’ente è invece sanzionato per fatto proprio e a fondare la sua responsabilità c’è la possibilità da parte della pubblica accusa di contestare una colpa di organizzazione, se non addirittura la commissione del reato come elemento di politica aziendale.
In questo senso, facendo riferimento alla sentenza ThyssenKrupp (sentenza 38343 del 2014 a Sezioni unite), può configurarsi una colpa per l’infrazione all’obbligo imposto alle persone giuridiche di prevenire la commissione di alcuni reati, «adottando iniziative di carattere organizzativo e gestionale in base a un “modello” che individua i rischi e delinea le misure atte a contrastarli. E la colpa dell’ente consiste nel non avere ottemperato a tale obbligo».
La circostanza che questa colpa diventi evidente e rilevante per l’imputazione dell’illecito solo per effetto della commissione di uno specifico reato, compreso nella lista dei delitti presupposto, non compromette la natura personale della responsabilità.
Questa va infatti fatta derivare da un deficit organizzativo che riguarda «la mancata adozione di un modello precauzionale astrattamente idoneo a prevenire non solo e non tanto la singola rottura dello schema legale realizzata dal soggetto imputato del reato presupposto, ma le carenze strutturali e di sistema che accadimenti di quella fatta alimentano e favoriscono».