Gli squilibri commerciali e i dazi di Trump

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E’ piombata come un fulmine a ciel sereno la notizia che l’amministrazione Trump ha deciso di imporre dei dazi sulle importazioni di acciaio e alluminio: l’acciaio importato negli Stati Uniti sarà tassato del 25 per cento e l’alluminio del 10 per cento.  Si tratta di una decisione che tuttavia lo stesso Trump aveva più volte paventato, nonostante in pochi realmente immaginassero che si sarebbe giunti ad una scelta così drastica.

Nonostante le numerose critiche giunte da più parti, in particolare dall’Europa, l’amministrazione americana rivendica non senza ragioni la scelta, chiamando in causa l’elevatissimo deficit commerciale USA. Proprio pochi giorni fa è uscito il dato sulla bilancia commerciale di gennaio, che ha visto il deficit ampliarsi a 56,6 miliardi di dollari, in rialzo sia rispetto a dicembre (-53,9 miliardi) sia rispetto alle stime degli analisti (-52,6 miliardi), andando così a stabilire un vero e proprio record.

In effetti la situazione commerciale americana si è andata aggravando pesantemente negli ultimi anni. C’è però da sottolineare un dato: a partire dal 1971, anno in cui il dollaro ruppe la parità dichiarata con l’oro, le partite correnti americane hanno da sempre fatto segnare importanti deficit. Questo perché il dollaro, essendo moneta di riserva mondiale, deve servire non soltanto l’economia americana ma anche quella degli altri Paesi. Tutte le materie prime infatti, compreso il petrolio, sono quotate in dollari.

E’ difficile stabilire quale sia il valore oltre il quale la situazione delle partite correnti americane sia da considerarsi pericolosa, proprio per i motivi sopra citati. E’ chiaro però che sempre di più ci si sta interrogando se non sia pericoloso per il dollaro e l’economia americana essere così vulnerabili. Cosa accadrebbe se improvvisamente i maggiori accumulatori di riserve di dollari americani decidessero di riversarli sul mercato?

Non di minore importanza è la situazione dell’apparato industriale americano. Trump vi ha costruito uno dei capisaldi della sua campagna elettorale: “Make America Great Again”, il celebre slogan divenuto cavallo di battaglia dell’America trionfatrice alle scorse elezioni, era principalmente rivolto a quella parte dell’America profonda particolarmente colpita dagli effetti della globalizzazione. Le delocalizzazioni verso aree del mondo più convenienti, la progressiva deindustrializzazione di intere aree del Paese e la conseguente perdita di competitività industriale americana sono divenuti argomenti centrali nel dibattito.

Più volte Trump ha citato i deficit commerciali americani verso altri Paesi come legittimazione della sua scelta protezionistica. Messico e Cina sono le più citate, essendo nei fatti i Paesi verso i quali gli USA vantano i deficit più elevati (rispettivamente 71 e 375 miliardi), ma improvvisamente sotto la lente d’ingrandimento è finita anche lo storico alleato europeo. Sì, l’eurozona, che vanta un avanzo commerciale monstre proprio nei confronti degli USA. Trump ha recentemente minacciato di voler imporre dei dazi sull’importazione di auto dall’Unione Europea.

Perché le auto?

La risposta probabilmente sta nel dato della bilancia commerciale tedesca di gennaio: +21,3 miliardi di euro. E’ infatti la Germania l’altro grande bersaglio cerchiato nella cartina geografica di Trump. Una Germania che continua a mietere avanzi commerciali imponenti che sfiorano i 300 miliardi di dollari e che nei confronti degli USA vanta surplus vicini ai 70 miliardi. Uno degli elementi trainanti le esportazioni tedeschi è proprio il settore automobilistico, con i marchi storici come BMW, Mercedes, Porsche molto apprezzati negli States. Non lascia quindi sorpresi che Trump minacci dazi per le auto.

Chi rischia di restare coinvolto in questa guerra commerciale di Trump contro le superpotenze dell’export sono i partner europei minori, tra i quali l’Italia, che sull’export ha fondato gran parte della propria ripresa negli ultimi due anni. Da sottolineare come rischino di restare coinvolti anche Paesi che negli scambi commerciali risultano perdenti, quali ad esempio la Francia, che nel solo mese di gennaio ha evidenziato un deficit di 5,6 miliardi di euro, in peggioramento rispetto a dicembre (-3,4 miliardi) e rispetto alle stime degli analisti che si attendevano un deficit più contenuto (-4,45 miliardi).

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