Quella che era solo una sensazione, ovvero che il “sistema Google” (motore di ricerca, il sistema di posta Gmail, i video di YouTube, il servizio mappe, ecc.) sia in qualche modo sempre presente nelle nostre attività legate al web, ora è diventato un documentatissimo studio messo a punto da due ricercatori dell’Università di Princeton, Arvind Narayanan e Steven Englehardt, che hanno realizzato quella che è stata definita la più completa analisi dei metodi utilizzati dalla società per monitorare i movimenti delle persone online. I due hanno scandagliato un milione di pagine web con un software open source sviluppato ad hoc : OpenWpm. Chi conosce e memorizza i nostri movimenti online? Con quali tecnologie lo fa? Queste le due domande cui gli studiosi hanno cercato di dare una risposta (qui lo studio completo).
La prima risposta, è chiara: i dati di navigazione sono i migliori ingredienti per definire le tendenze di consumo di un utente e quindi dicono tutto sulle sue potenzialità di cliente, il che consente di ottimizzare i flussi pubblicitari e le proposte dirette di acquisto. Le realtà web che quindi riescono ad avere una presenza diffusa nelle abitudini di utilizzo dell’utente, e soprattutto operano in quegli ambiti dove l’engagement dell’utente stesso è più elevato (perché guarda, sceglie, cerca, posta informazioni personali), sono quelle che riescono a raccogliere una collezione di dati più ricca e soprattutto più profilata. E così Narayanan e Englehardt arrivano ai soliti noti: «Google, Facebook e Twitter sono le uniche realtà presenti in maniera diretta o indiretta in più del 10% dei siti”, scrivono. Di questi tre, la più pervasiva è Google, che riesce a tracciarci nell’80% delle pagine prese in esame. In particolare, Google Analytics, un congegno usato per monitorare i visitatori di un sito che fa coppia con il sistema per la pubblicità mirata adottato dal colosso di Mountain View, è stato individuato su circa il 70% dei siti. Mentre un altro meccanismo, DoubleClick, su circa il 50%.
Che lo facesse si intuiva, ma “come lo fa”? Nonostante la grande campagna di segnalazione obbligatoria (la EU Cookie Law), ieri come oggi a giocare un ruolo fondamentale sono i cookie, quei piccoli elementi d’informazione che un server web può immagazzinare nel browser di un utente per seguirne gli spostamenti da una pagina all’altra. Ma esiste un altro sistema di tracciamento, molto più raffinato: il fingerprinting, ovvero la raccolta di dati sulla nostra modalità di utilizzo, i tempi di risposta, le caratteristiche delle nostre azioni “touch” su dispositivi mobili. Un’altra grande massa di dati non immediatamente percepibili che contribuiscono a costruire fin nei minimi dettagli il nostro profilo. «Noi non spiamo nessuno», è la difesa di Google, basata sul fatto che, dice l’azienda, la registrazione della navigazione degli utenti è finalizzata alla creazione di un elenco personalizzato di categorie di interesse, ma il tutto avviene in maniera anonima: i profili sono associati a un codice numerico, mai a un nome e un cognome.