I segreti di Generali nell’affare Fonsai

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Si alzano i veli sul lato oscuro dell’affare Fondiaria Sai, che ha messo a rumore l’Italia della finanza lungo tutto il 2012. Esso non riguarda le malefatte dei Ligresti, ormai oggetto di indagini giudiziarie, né i rapporti finanziari tra il gruppo Fonsai e Mediobanca, anch’essi di pubblico dominio. Il lato oscuro riguarda i rapporti tra la Palladio di Vicenza e le Assicurazioni Generali: tra la provincia e l’impero.

Sull’affare Fonsai, la finanziaria veneta di Roberto Meneguzzo si era proposta come il coraggioso Davide che sfida il Golia di Mediobanca. E invece Davide aveva alle spalle un Golia ancora più grande: il colosso triestino, allora guidato con pieni poteri da Giovanni Perissinotto. Ma di questo dettaglio Meneguzzo non ha mai fatto parola né al mercato né all’Antitrust né all’Isvap, l’autorità di vigilanza sulle assicurazioni, nonostante il Corriere della Sera avesse rivelato come nell’azionariato della Palladio figurasse, sorprendentemente, la Hongkong & Shangai Banking Corporation, assai sospettabile di portage per clienti degni del suo rango di prima banca europea e non certo per qualche padroncino delle Tre Venezie.
A sollevare i veli è stato il presidente del comitato per il controllo interno delle Generali, Alessandro Pedersoli, un avvocato ricco d’esperienza indicato dal mondo di Intesa Sanpaolo e non sospettabile di ostilità verso Perissinotto. Nel consiglio di amministrazione del 14 dicembre, Pedersoli ha presentato una dettagliata relazione sulla base dell’inchiesta interna promossa da Mario Greco, il nuovo amministratore delegato.
Greco si era posto, evidentemente, due scopi: poter valutare certe partite ai fini del bilancio 2012 e porre termine a relazioni tra management e soci che distraggono dal lavoro vero. Ma la sua iniziativa assume anche un forte rilievo politico. Sia il salvataggio di Fonsai a opera di Unipol, con l’appoggio di Mediobanca e Unicredit, sia la repentina rimozione di Perissinotto, da sempre ben visto alla Cà de Sass, non erano piaciuti né all’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, Enrico Cucchiani, né al presidente Giovanni Bazoli. Questi due episodi avevano rinfocolato sospetti incrociati tra mondi che, invece, l’Italia travolta dalla recessione chiama alla collaborazione. Ma ora le nuove notizie, ottenute da un manager terzo, proveniente dalla Svizzera, possono consentire di rileggere quelle aspre contese in termini diversi. E di considerare meglio il ruolo di Unipol, che taglia la strada a Meneguzzo, non ancora alleato di Matteo Arpe ma già d’accordo in linea di massima con Salvatore Ligresti per rilevare la Premafin e, con essa, la Fonsai senza fare alcuna Opa rivolta al mercato.
Al momento sono almeno tre i fili che legavano la Palladio alle Generali e che ora vengono tagliati. Il primo riguarda il maggior socio industriale della Palladio, la famiglia Amenduni. Si tratta di un filo schermato, ma non abbastanza. Tutto inizia alla fine del 2006 quando la compagnia triestina passa alla famiglia argentina Wertheim una sua scatola lussemburghese, dal nome beneaugurante di All Best. Il primo giugno 2007, la All Best acquista dalla filiale olandese della Valbruna, il gioiello degli acciai speciali costruito dagli Amenduni, il 2,95% dell’Ilva per 180 milioni di euro. Un prezzo generoso, che presuppone un valore totale dell’Ilva di 7 miliardi. A finanziare la All Best è la Banca della Svizzera Italiana, gruppo Generali. Ma i Wertheim rientrano subito emettendo obbligazioni convertibili in azioni Ilva riservate a due società veicolo delle Generali site alle Bahamas, la Gsf e la Wgo. Nel 2009, Perissinotto svaluta le obbligazioni e poi le passa a società lussemburghesi di private equity della compagnia. Un disastro. Dal consiglio filtra l’idea di una svalutazione totale. Ma Amenduni è ormai uno dei principali soci di Ferak, la società veicolo costituita nel 2007 dalla Palladio per entrare nelle Generali.
Il secondo filo legava le Generali alla Finanziaria Internazionale di Enrico Marchi e Andrea De Vido. Basata a Conegliano, la Finint si era segnalata come partner della Banca di Roma geronziana nelle cartolarizzazione delle sofferenze e poi, nel 2004, per la privatizzazione dell’aeroporto di Venezia, fatta d’intesa con Ligresti e le Generali e con l’appoggio della Regione Veneto, allora retta da Giancarlo Galan. Generali è esposta per almeno 148 milioni con le iniziative di Marchi e De Vido. Delicata è la parte obbligazionaria, che risale al 2008: per 48 milioni Generali attende il rimborso alla scadenza, nel gennaio 2014; per altri 41 milioni, spesi per acquistare azioni Generali poi conferite alla Ferak, la compagnia dovrebbe attendere il 2017 sempre che quei titoli siano venduti almeno al prezzo d’acquisto, circa 20 euro; diversamente, se la garanzia personale di 20 milioni prestata dal tandem veneto non sarà sufficiente, la perdita toccherà alle stesse Generali. Una patata bollente.
Il terzo legame è quello più importante. Uno sguardo al grafico aiuterà. La Palladio Finanziaria è controllata da una società vicentina, la PFH 1. Nel luglio 2007, questa PFH 1 emette 64,2 milioni di strumenti finanziari per un controvalore di 200,2 milioni di euro versato dalla Hongkong & Shangai Banking Corporation. Si badi bene: quegli strumenti finanziari sono pari al 49% della PFH 1. Il colosso bancario inglese sta scoprendo Vicenza, patria del geniale architetto cinquecentesco al cui nome di ispira Meneguzzo? Nemmeno per sogno. La Hsbc fa un total return swap con la Gsf e la Wgo, sempre quelle, che pagano subito 160 milioni. Nel 2009, la Hsbc svaluta un po’ lo swap, lo chiude e lo trasforma in notes per le società veicolo delle Generali che nell’agosto 2011 chiedono a Hsbc di convertire per metà in azioni PFH 1. La società di Meneguzzo se le riprende. Ma che cosa fanno i due veicoli delle Generali con l’altra metà del pacchetto azionario PFH 1? La piazzano in tre fondi esteri. Due, Ggp e Leo, sono di proprietà Generali, mentre nel terzo, Tenax, il 49% è di Generali e il 51% di quel Massimo Figna, già capo ricerca all’Ubs assai benevolo con il Leone e poi anima di un hedge fund in cui le Generali hanno messo mezzo miliardo perdendo il 2% all’anno per un decennio. Dal consiglio filtra che ora la compagnia intende chiudere il rapporto con Tenax.
Volendo, si possono individuare altri due legami: uno, costituito dai 400 milioni concessi a Veneto Banca, partner storico di Meneguzzo; l’altro, formatosi nel fondo di investimento Veicapital, l’unico di cui si sapeva e nel quale, peraltro, partecipa anche Intesa Sanpaolo. Tanto basta a far emergere dagli ambulacri di Trieste relazioni pericolose perché segrete. Gli incroci azionari, pur discutibili, nei limiti della legge sono legittimi. In questo caso, ci si potrebbe chiedere se un tale complicato reticolo di cointeressenze non configuri una situazione di controllo di fatto del sistema Palladio da parte di Generali. Di certo, configura una relazione speciale tra l’ex capo-azienda e i soci veneti. Che minaccia di costare almeno 250 milioni. Una relazione che introduce quelle con Petr Kellner nell’Est Europa, con la banca russa Vtb su cui Generali perde un terzo dei 300 milioni investiti e con la Ntv-Nuovo Trasporto Viaggiatori di Montezemolo e Della Valle, passata anch’essa attraverso fondi esteri.
La relazione occulta con i veneti appare dunque come l’inizio di un tentativo di costruire una rete di azionisti amici del management, perché finanziati dalla compagnia, da contrapporre all’azionista storico Mediobanca e ai suoi nuovi sodali (De Agostini, Caltagirone, Del Vecchio). Dettaglio curioso, questo tentativo di prendere il potere parte nel 2007 e si sviluppa negli anni seguenti proprio quando Mediobanca e soci duellano con Cesare Geronzi e Vincent Bolloré per fare di Perissinotto il capo delle Generali, esautorando l’allora presidente Bernheim, ma anche misurando la gestione sui risultati.

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