Maxi-fondo di garanzia Pmi: dal convegno Assiom-Forex ripartono le grandi manovre delle grandi banche

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Il tema delle Pmi strette nella morsa del credit crunch ha preso la ribalta del Convegno Assiom-Forex, dove il Governatore Visco ne ha diffusamente parlato in questa relazione.
I banchieri presenti hanno colto l’occasione per lanciare la proposta di un Fondo di garanzia Pmi potenziato che copra proporzionalmente (50%) e in via generalizzata i rischi del credito alle Pmi.

Lo spunto per rilanciare l’idea non è venuto dalla Banca d’Italia: al Forex Visco ha menzionato l’esperienza del Fondo centrale Pmi, non ha escluso “interventi più ambiziosi” per la gestione dei crediti deteriorati (subito tradotti dai media in “bad bank di sistema”).
In realtà, i banchieri presenti al convegno hanno rilanciato una proposta di qualche mese fa, formulata da una think tank a nome Action Institute e riformulata da Roberto Nicastro (DG di Unicredit) in questa audizione parlamentare.

Su quella linea, Luigi Abete, presidente di BNL, ha affermato:

In questa nostra epoca, un’impresa-banca che rispetta parametri di prudente gestione ed economicità non può evidentemente finanziare diffusamente l’impresa piccola e medio-piccola, in un quadro concorrenziale globale rispetto a cui quella dimensione di impresa non ha, né può avere, una visibilità adeguata alle tendenze di mercato.

In altre parole, ha detto che il sistema produttivo italiano ha una componente strutturale schiacciata dalla recessione e dalla competizione globale, incapace di reggere senza assistenza pubblica. Se si vuole che questo tipo di impresa abbia credito dalle banche italiane, lo Stato deve prendersi sistematicamente una parte del rischio. Come? Con una versione 2.0 del Fondo centrale di garanzia per le Pmi, capace di lavorare su volumi molto superiori agli attuali (e con imprese di taglia media più grossa). Abete parla di 10-15 miliardi di fondi pubblici per supportare 170 miliardi di credito alle Pmi garantito dallo Stato, che è l’ammontare complessivo delle linee fino a 2,5 milioni censite da Bankitalia. L’idea di qualche mese fa parlava di una struttura di supporto funded del rischio di prima perdita alimentata da fondi strutturali UE. Chi dovrebbe gestire il Fondo 2.0? Si vocifera di Cassa Depositi e Prestiti. Abete ha detto che in Francia (Paese della casa madre di BNL) lo Stato fa molto di più con azioni di questo tipo.
Anche Ghizzoni (AD di Unicredit) ha parlato di Fondo di garanzia come soluzione interessante, citando l’esperienza tedesca, aggiungendo:

Negli ultimi 6-7 anni il credito è cresciuto in doppia cifra, mentre il Pil è calato del 9%. Questo vuol dire, prima di tutto, che non è il credito che genera ripresa e, d’altra parte, che l’abbiamo concesso ad aziende che non avevano capacità di generare valore e crescita. Abbiamo affrontato la crisi non pronti, sia per quanto riguarda le banche sia per le imprese: la banche erano sottocapitalizzate, con un livello di liquidità non buono e molto sbilanciate su depositi e impieghi. Erano inefficienti e spesso facevano del credito come ‘solo prodotto’ a imprese piccole e spesso non aperte sui mercati internazionali.


Come hanno affermato Abete e Ghizzoni, la piccola impresa è destinata a essere pesantemente ridimensionata nell’accesso al credito perché è destino che perda spazio nel sistema produttivo nazionale, che non può sopravvivere con questa frammentazione anomala. Già dal 2009 c’è stata una pesante selezione naturale di piccole aziende nei settori legati alla domanda interna, ma la moria purtroppo non si arresta.
Quel tipo di clientela, nella misura in cui riesce a star sopra la linea di galleggiamento, vivrà soltanto di credito agevolato o garantito dalla mano pubblica. Quel credito lo erogheranno le banche con sistemi automatizzati interfacciati con le piattaforme di garanzia pubblica. 
Non sarà un sistema a costo zero per la collettività: serve comunque un impianto procedurale da far funzionare (e già oggi non costa poco), e soprattutto un tariffario di commissioni sussidiato rispetto al costo del rischio (come è l’attuale Fondo Pmi). Il flusso di perdite che potrà essere assorbito su quello stock sarà a carico dello Stato, può darsi che il presidio di equity da fondi strutturali ne assorba una larga parte, ma se il disegno parte dall’idea di sistemare uno stock di debito aziendale “concesso ad aziende che non avevano capacità di generare valore e crescita (Ghizzoni)”, allora aspettiamoci un tasso di perdita potenziale anche superiore a quelli che abbiamo osservato negli anni più bui dopo il 2008.

La proposta del maxi-fondo sembra collocarsi in uno scenario nel quale ci sarà selezione e consolidamento tra le banche. Fuori del ristretto gruppo delle maggiori, molte banche territoriali sono in difficoltà, alcune in crisi conclamata, molte con patrimoni assottigliati, ancora di più quelle dipendenti dal rifinanziamento BCE per il funding e l’ossigeno al conto economico. Si ridurrà la capacità di offerta dei prestatori naturalmente orientati al mercato locale degli impieghi. Di qui la necessità di attrarre le banche maggiori con incentivi specifici a favore del credito alle Pmi.
Anche tra i confidi la selezione è già cominciata. I piani di ricapitalizzazione con sussidio del Fondo centrale possono entrare (se mal gestiti) in questo conto alla romana a copertura del superlavoro (ingrato) fatto nel 2009-2010 a supporto delle banche e delle azioni anti-crisi dello Stato e delle Regioni. Non servirà ad evitare il collasso degli enti di garanzia più provati, che non ritroveranno capacità di sviluppo, al massimo un supplemento di sopravvivenza.


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