Omicron: aggiornamenti per il 2022
Dopo le dichiarazioni azzardate sul rabbonimento del virus Omicron quale spiegazione del minor tasso di ospedalizzazioni ed eventi severi rispetto al numero di contagiati, abbiamo finalmente qualche dato più solido per riflettere: cominciamo dai meccanismi di base: finora, disponiamo di 6 diversi studi – tutti da revisionare – che sono concordi nell’identificare un minor danno in cellule polmonari da parte di Omicron.
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Dopo le dichiarazioni azzardate sul rabbonimento del virus Omicron quale spiegazione del minor tasso di ospedalizzazioni ed eventi severi rispetto al numero di contagiati, abbiamo finalmente qualche dato più solido per riflettere: cominciamo dai meccanismi di base: finora, disponiamo di 6 diversi studi – tutti da revisionare – che sono concordi nell’identificare un minor danno in cellule polmonari da parte di Omicron.

Del primo studio, svolto ad Hong Kong, non abbiamo altro che un comunicato stampa. Nonostante quanto riferito dai media e perfino da autorevoli scienziati, i dati mostrati non dimostrano affatto che Omicron sia meno severa di Delta nei polmoni, ma solo che è più abbondante nelle vie aeree superiori (e questo può spiegarne in parte la maggiore trasmissibilità). A livello polmonare, in questo studio Omicron appare statisticamente distinta dalla variante originaria, ma non da Delta, come potete vedere nell’annotazione che ho fatto qui sotto ai dati presentati dal comunicato stampa.

Abbiamo poi un secondo studio, per il quale disponiamo di un preprint, sviluppato da ricercatori con una collaborazione internazionale fra molti paesi diversi.

In un modello murino di infezione da SARS-CoV-2, con topi che sono modificati per esprimere il recettore umano ACE2 per il virus, i ricercatori affermano che la patologia manifestata sia meno severa rispetto a quanto si osserva per Delta. Tuttavia, al contrario di quello che mostrano i ricercatori di Hong Kong in un diverso setting sperimentale, in questo studio si afferma che anche nelle alte vie respiratorie si trova meno virus quando l’infezione è causata da Omicron; e questa discrepanza nei primi studi, già di per sè, fa comprendere quanto si debba stare attenti nel considerare i dati appena arrivati e non revisionati. Peraltro, i dati sulla minor patogenicità di Omicron si basano su analisi qualitative (autopsia polmonare nei topi, di cui è mostrato un solo esempio) e poi principalmente sull’analisi quantitativa della perdita media di peso in topi infetti dal ceppo originale, da delta o da omicron. Per quanto riguarda questa analisi, i dati sono mostrati nella figura 2 del preprint, riprodotta di seguito.

Come si può notare, l’unica differenza significativa fra Omicron e le altre varianti testate è al giorno 6 dopo le infezioni; questa differenza è quindi insufficiente a trarre la conclusione di una dimostrata minor virulenza di Omicron, sia perchè parliamo di gruppi ristretti di animali, sia perchè, ovviamente, il significato della differenza in un unico punto temporale è poco chiaro.

Arriviamo così ad un terzo studioun preprint, prodotto da un gruppo guidato da uno dei principali esperti di coronavirus, il professor Gupta, a capo anche in questo caso di un’ampia collaborazione internazionale. In questo caso, i dati presentati appaiono finalmente solidi: utilizzando pseudovirus in grado di esprimere le diverse varianti della proteina spike di SARS-CoV-2, si dimostra convincentemente che la Spike di Omicron non è processata efficientemente dalle cellule che esprimono la proteasi TMPRSS2. Questo processo è importante per la patogenicità del virus: già in precedenza si era mostrato che la forma processata di Spike induce la fusione fra cellule polmonari adiacenti, facilitando il passaggio del virus da una cellula all’altra per così dire “al coperto”, cioè senza esporsi nell’ambiente extracellulare ove può essere riconosciuto dagli anticorpi circolanti. La formazione di questi gruppi di cellule fuse, o sincizi, è stata correlata anche nell’essere umano alla severità della malattia a livello polmonare. Il gruppo di Gupta ha dimostrato non solo che la proteina Spike di Omicron è processata meno efficientemente, ma che questo provoca nel modello sperimentale studiato la perdita molto pronunciata della capacità delle cellule infette di formare sincizi. Dunque, in vitro la Spike di Omicron, a causa di alcune modifiche nella sua sequenza che ne ottimizzano probabilmente la capacità di infettare le cellule attraverso il riconoscimento di ACE-2, ha perso la capacità di promuovere la formazione di sincizi; la perdita di infettività dovuta alla loro mancata formazione deve essere più che bilanciata dal vantaggio di meglio interagire con ACE2, e così abbiamo non solo dati, ma anche un meccanismo chiaro attraverso cui Omicron potrebbe essere meno patogenica. Il condizionale resta, perchè si tratta di dati preliminari in vitro.

I dati ottenuti in vitro da Gupta sono stati confermati e ampliati in un modello animale dal consorzio giapponese G2P, che ha pubblicato un quarto studio, per il quale anche in questo caso disponiamo di un preprint. I ricercatori giapponesi hanno innanzitutto confermato che la proteina Spike di Omicron, in sistemi in vitro, è processata di meno di quella della Delta e che, in cellule che esprimono TMPRSS2, Delta è peggiore di Omicron in quanto a infettività (dati questi coerenti con quanto osservato in un diverso sistema sperimentale in vitro da Gupta et al). Hanno pure confermato la minore capacità di indurre formazione di sincizi da parte della proteina Spike di Omicron, ancora in linea con l’importante risultato di Gupta; Delta, sia detta per inciso, appare di gran lunga la variante più fusogenica – molto più sia di Omicron che del ceppo originario. Dati nuovi rispetto al lavoro di Gupta sono stati prodotti dai giapponesi studiando i criceti infettati con la variante originaria, con delta e con omicron.
Dal punto di vista della severità della malattia, i punti rilevanti sono due. Il primo: mentre i criceti non infetti guadagnavano peso durante i primi 5 giorni di osservazione, i criceti infettati dal ceppo originale o da Delta perdevano gradualmente circa il 10%-15% del loro peso, mentre i criceti infettati da Omicron non perdevano (e non guadagnavano) peso, suggerendo un effetto clinico presente, ma meno severo per questa variante. Il secondo risultato rilevante è arrivato dal monitoraggio della pressione di ossigeno: i criceti affetti da Omicron, durante i primi 5 giorni che seguivano l’infezione, non mostravano differenze rispetto ai criceti non infetti, mentre quelli infetti dalla variante originale peggioravano. Questo dato va tuttavia preso con molte precauzioni, visto che nello stesso esperimento i criceti affetti da Delta mostrano grande variabilità; nè le misure di un secondo parametro respiratorio, denominato Penh, appaiono particolarmente utili, anche se per ragioni diverse. Diciamo che, per quanto riguarda la severità della malattia, per i parametri respiratori i dati sembrano ancora suggestivi, ma non solidi. Misurando la concentrazione di virus nei polmoni, in funzione della variante, non si ottengono dati sostanziali: per esempio, nel corpo del polmone del criceto, al terzo giorno dopo l’infezione si osserva una maggior proliferazione di Omicron rispetto alle altre varianti, mentre una minore se ne osserva al primo e al settimo giorno. Alla periferia del polmone, Omicron non differisce dalle altre varianti al primo e al quinto giorno, mentre sembra essere un po’ minore al terzo e al settimo. In sostanza, la concentrazione del virus ci dice poco (e si conferma la scarsa utilità di questo dato, sbandierato ai quattro venti e in maniera erronea dopo il comunicato originario dei ricercatori di Hong Kong). Molto più interessante è la valutazione dello stato infiammatorio dei polmoni dei criceti infetti: in sovrapposizione con la capacità di formare sincizi dovuta alle varie versioni di Spike, la variante Delta appare peggiore di tutte, mentre la variante Omicron appare più benigna di quella originale (e quindi anche di Delta).

I dati in criceto del consorzio giapponese G2P, quindi, sembrerebbero positivi, al netto di alcuni esperimenti meno informativi; ma quanto sono riproducibili? Per valutarlo, possiamo esaminare un quinto studio, prodotto dal gruppo belga guidato dal professor Netys e pubblicato anch’esso come preprint. Cominciamo dalla perdita di peso dei criceti, che il consorzio giapponese risulta essere attenuata durante l’infezione da Omicron. Il paragone con lo studio di Netys et al. è illustrato nell’immagine seguente.

I dati di Netys et al. si riferiscono al quarto giorno dopo l’infezione. Come si può notare, i dati sono coerenti solo qualitativamente, nel senso che i criceti infetti da Omicron anche nel caso dello studio belga dopo 4 giorni pesano mediamente di più di quelli infetti dalla variante originaria; ma mentre nel lavoro dei giapponesi il peso di questi non cambia e quello degli infetti dal ceppo originario diminuisce del 10%, nel caso dei belgi il peso dei criceti infetti da Omicron aumenta del 5% e quello dei criceti infetti dal ceppo originario non cambia. Questo significa che sullo stesso modello animale e con gli stessi ceppi, la variazione di peso dopo infezione è estremamente dipendente dal protocollo sperimentale utilizzato (per esempio, quanto cibo si fornisce ai criceti e di che natura); i dati di un singolo lavoro, quindi, possono essere valutati solo in senso qualitativo, e sono poco riproducibili quantitativamente al variare dei laboratori.
Non va meglio se proviamo a valutare la riproducibilità dei dati di concentrazione di RNA virale nel polmone dei criceti infettati. Questo confronto è possibile esaminando la figura successiva.

Come abbiamo visto le differenze trovate dai giapponesi variano a seconda dell’area del polmone e del giorno dopo l’infezione considerato (in alcuni giorni vi è più RNA di Omicron rispetto a qualunque altra variante); certamente, la differenza di tre ordini di grandezza osservata tra Omicron e il ceppo originale dal gruppo belga è impossibile da conciliare con quanto si osserva tra il terzo e il quinto giorno post-infezione nei criceti studiati dal consorzio G2P. In questo caso, nemmeno qualitativamente possiamo trovare compatibilità tra i dati.

Se rinunciamo alla riproducibilità quantitativa dei dati riportati, possiamo però almeno dire che, anche per i belgi, lo stato di patologia polmonare riscontrato dopo l’infezione è ben diverso e più lieve rispetto a quello riscontrato con altre varianti; questo dato, derivante dall’analisi anatomopatologica e quindi per definizione qualitativo, è l’unico che appare riproducibile, ed è come abbiamo visto messo in convincente connessione sia dal gruppo di Gupta che da quello del G2P con la ridotta capacità della proteina Spike di Omicron di indurre sincizi nelle cellule polmonari.

Arriviamo così al sesto studio, documentato in un altro preprint i cui autori appartengono al più ampio consorzio internazionale che sin qui ha pubblicato in merito. In questo caso, è evidente come quanto abbiamo appena visto circa la riproducibilità delle osservazioni su uno stesso modello animale diventa ancora più problematico se si usano modelli animali diversi, in particolare di specie diverse fra loro. Lo studio in questione, infatti, riunisce i risultati derivanti da sperimentazione sia su diversi ceppi di criceto che su diversi ceppi di topo. Per cominciare, mentre in tutti i ceppi di topo standard studiati gli autori osservano meno carica virale sia nelle alte che nelle basse vie respiratorie, questo non si osserva nei topi modificati per esprimere ACE-2 umano, ove Omicron si accumula sia nella alte vie respiratorie che in quelle basse. Nei criceti, le alte vie respiratorie presentano carica di Omicron alta, e le basse no, introducendo una ulteriore differenza rispetto ai topi. Nel loro insieme, questi dati indicano che il tropismo del virus per le alte vie e le basse vie respiratorie dipende dal modello utilizzato; unendo questo fatto all’eterogeneità temporale della differenza fra Omicron e le altre varianti in quanto a concentrazione virale, eterogeneità discussa per i precedenti preprint, appare evidente che è quanto meno azzardato usare questo tipo di dati per trarre conclusioni utili per la patogenesi in esseri umani. Come per i precedenti preprint, le stesse considerazioni possono essere fatte sui risultati presentati riguardo ad altri marcatori surrogati di severità dell’infezione, come la perdita di peso o il Penh: la dipendenza dai dettagli del protocollo usato, dal modello usato e forse da altre condizioni non controllate (come il tipo di alimentazione fornita) appare davvero troppo forte, perché si possa andare oltre la suggestione e raggiungere qualche solidità nelle conclusioni.

Invece, i dati anatomopatologici ottenuti sui polmoni degli animali infetti, benchè qualitativi per natura, appaiono costantemente indicare un minor danno tissutale e una minor infiammazione anche in questo ultimo lavoro; di conseguenza, la confidenza in questo tipo di analisi esce rafforzata, e la patogenesi a livello polmonare, almeno in diversi tipi di modello animale e con diverse varianti del ceppo Omicron, appare sostanzialmente supportata e incoraggiante. Questo potrebbe dipendere dall’altro dato più volte ritrovato – la minore capacità della proteina Spike di omicron di essere processata e di indurre la formazione di sincizi fra le cellule polmonari, una caratteristica nota per essere correlata alla severità del danno polmonare.

Omicron: patogenicità da dati epidemiologici.

A fronte degli studi di laboratorio, che potrebbero fornire la prova diretta del meccanismo di riduzione della patogenicità di Omicron rispetto ad altre varianti, i dati epidemiologici continuano ad accumularsi. L’accumulo di questi dati è importante, perchè il confronto diretto fra indicatori rozzi come il rapporto tra ospedalizzati e positivi risente di ovvi fattori confondenti, come la composizione delle popolazioni di infettati da Omicron e da altre varianti: nel caso di Omicron, il virus infetta molti soggetti immuni ad altre varianti, i quali possono però essere meno sensibili alle conseguenze cliniche dell’infezione grazie ad una residua protezione dovuta a precedenti infezioni o vaccino. Per questo motivo, tutti gli studi raccolti inizialmente includevano sempre l’avvertenza degli autori sulla presenza di questo tipo di effetti confondenti e quindi sulla necessità di attendere studi in cui vi fossero casi di ospedalizzazione con Omicron e altre varianti di soggetti equivalenti almeno per età, sesso, pregresse patologie e stato vaccinale, da confrontare direttamente per ridurre il peso dei fattori confondenti suddetti. In altre parole, per ottenere indicazioni circa la specifica differenza di patogenicità di un certo ceppo rispetto agli altri, bisogna attendere studi di coorti, in cui coorti di soggetti infettati da varianti diverse, ma per il resto equivalenti fra loro, siano messi a confronto.
Questo tipo di studi richiede di attendere finchè non vi siano appunto abbastanza casi da poter campionare adeguatamente le varie coorti; finalmente, i primi studi cominciano ad arrivare, e quindi possiamo fare ragionamenti che non si basino semplicemente sulle nostre speranze.

In particolare, il 24 dicembre è stato pubblicato un preprint che documenta uno studio di coorte condotto in Canada, in cui 6312 casi di soggetti infetti da Omicron sono stati comparati con soggetti assolutamente equivalenti per età, sesso, condizione di preesistente patologia, data di scoperta dell’infezione e stato vaccinale, tratti da una popolazione di 8875 casi di infezione da virus Delta. I campioni paragonati possono sembrare molto ampi, ma in realtà si sono osservati 21 (0,3%) ricoveri e 0 (0%) decessi tra gli infetti da Omicron, da paragonare a 116 (2,2%) ricoveri e 7 (0,3%) decessi tra gli infetti da Delta. Tenuto conto dello stato di vaccinazione, il rischio di ospedalizzazione o morte era inferiore del 54% (HR=0,46, IC 95%: 0,27,0,77) tra i casi Omicron rispetto ai casi Delta, e una simile riduzione di rischio si osservava anche dopo stratificazione per età. Intendiamoci bene: si tratta ancora di numeri piccoli, ma questa volta i maggiori e più ovvi effetti confondenti sono stati debitamente considerati, dimostrando la possibilità che anche al netto della differente composizione di popolazione dei soggetti infettati, con Omicron che infetta soggetti dall’esito clinico mediamente migliore, resta una differenza di rischio oscillante fra il 27% e il 77%, con una confidenza al 95%.

Tiriamo le somme

Per non sovrainterpretare i risultati che arrivano dagli studi in laboratorio, e tenendo conto che molti di quelli sono irriproducibili o non traslabili all’uomo per le ragioni che abbiamo elencato, i numeri che riguardano marcatori surrogati di severità (come il dimagrimento dei modelli animali) o la concentrazione del virus nelle diverse zone del sistema respiratorio appaiono poco riproducibili e sostanzialmente inutili.

Al contrario, il dato qualitativo della ridotta patologia infiammatoria e degenerativa nei polmoni dopo infezione da variante Omicron sembra supportato, e può essere messo in relazione con un secondo dato meccanicistico pure esso sin qui confermato, vale a dire la ridotta capacità della proteina Spike di essere processata e di indurre la formazione di sincizi fra cellule polmonari. Questa ridotta capacità di formare sincizi è stata probabilmente bilanciata dall’aumentata affinità per ACE2 conferita dalle mutazioni responsabili per tale perdita, così che la trasmissibilità del virus non solo non ne ha risentito, ma anzi è certamente aumentata.

Il dato in vitro conforta i primi studi epidemiologici che trattano esplicitamente i vari bias di campionamento, inevitabili quando si paragona l’andamento di ceppi diversi in una popolazione: pur se con numeri ancora piccoli, si comincia a notare una statisticamente significativa differenza di probabilità di esito severo a seguito dell’infezione da Omicron, almeno rispetto all’infezione da Delta, anche al netto dello stato di precedente immunizzazione dei soggetti considerati.

Tuttavia, come tutti gli scienziati hanno sin qui sottolineato, inclusi gli autori degli studi qui citati, la diminuzione di patogenicità intrinseca del virus, pur essendo una buona notizia (poteva andare molto peggio di così), in realtà può non essere sufficiente a bilanciare la sua estrema infettività, ottenendosi così in ogni caso una ondata di ricoveri e casi gravi sufficiente a produrre danni ai sistemi sanitari nazionali.
Se e quanto possiamo gestire bene l’ondata di Omicron dipende quindi ancora strettamente in primo luogo dalla suscettibilità clinica intrinseca della popolazione considerata, ovvero dalla percentuale di vaccinati e di vaccinati con terza dose per fascia di età, dall’età media e dalla freschezza dell’immunizzazione, e soprattutto in mancanza di adeguata copertura vaccinale della popolazione (per esempio in determinate fasce di età) dall’adozione di misure non farmacologiche in grado di contenere il contagio, come mascherine e distanziamento sociale.

Complessivamente, la tenuta clinica dei vaccini, unita alla possibile riduzione di virulenza di questa variante, ci portano in una condizione molto migliore di quanto sperimentato finora; tuttavia, l’aumentata circolazione virale dovuta all’elevatissima infettività di Omicron spinge a considerare come questa non sarà l’ultima delle varianti.

Per questo, mi pare che oggi si possano prospettare un paio di scelte per il futuro, sulla base delle quali agire.

L’ideale sarebbe spingere per valutare al più presto vaccini pan-coronavirus in grado di meglio bloccare anche la circolazione delle attuali e di molte future varianti. Questo contrasta con l’interesse economico a produrre “patch” per ogni variante o a continuare a vendere periodicamente nuove dosi degli stessi vaccini disponibili; per questo è necessaria un’azione politica, ove si voglia perseguire questa via. Non si tratta a mio giudizio di un traguardo impossibile, perchè per esempio lo sviluppo pubblico di un tale vaccino pan-coronavirus potrebbe poi interessare a qualche azienda che si troverebbe in posizione di mercato avvantaggiata rispetto alla concorrenza; tuttavia non discuterò qui in termini semplicistici uno scenario così complesso.

Nel caso questa via sia realisticamente impraticabile nel breve periodo, è necessario spingere al massimo i tassi di vaccinazione con ciò che abbiamo, perchè la circolazione virale, come dimostra Omicron, potrà comunque essere molto sostenuta, in tutti quei casi in cui – come accade per l’influenza – si fallisca nella previsione del ceppo contro cui sviluppare una nuova versione del vaccino, oppure anche se si continui ad utilizzare il vaccino attuale ripetendone la somministrazione e fidando sul solo effetto di protezione clinica. Circolazione virale alta, infatti, significa comunque stress per il sistema sanitario; e tale stress può essere ridotto solo restringendo al massimo la popolazione dei clinicamente suscettibili attraverso il vaccino.

Gli ultimi dati su Omicron ci mostrano come la situazione attuale sia migliore di quello che sarebbe potuto succedere, per esempio se la patogenicità intrinseca fosse stata ritenuta, ma immunoevasione e infettività fossero aumentate; ma sia anche peggiore di quanto ugualmente si sarebbe potuto verificare, se come sin qui successo la trasmissibilità e l’immunoevasività del virus non fossero variate in maniera per noi così peggiorativa, come accaduto per Omicron. Come ho scritto qualche tempo fa, “è più probabile che si verifichi uno qualunque fra i tanti scenari intermedi, anziché precisamente uno degli scenari più estremi – uno in cui il virus sia davvero incontenibile, molto letale e disastroso, come uno in cui tutto vada benissimo e questa sia la variante che annuncia la fine del problema”; questo è precisamente quanto sembra sia avvenuto, e oggi lo possiamo dire con qualche dato in più, invece che per azzardare ipotesi che si confacciano alle nostre aspettative, magari sulla base di comunicati stampa di Hong Kong che affermano fatti non supportati neppure dai risultati sperimentali annunciati.

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