Sono passati quattro anni da quando il Governo Monti diede il via alla riforma della finanza d’impresa
imprese

Ancora nessun commento

Promuovendo un processo di “liberalizzazione” che permettesse di superare il cosiddetto banco-centrismo del nostro sistema imprenditoriale e offrisse anche alle imprese – e in particolare alle PMI – non quotate la possibilità di accedere direttamente al mercato dei capitali, attraverso l’emissione di titoli di debito.

Gli strumenti individuati per realizzare questa liberalizzazione sono i cosiddetti mini-bond e le cambiali finanziarie: i primi sono obbligazioni a tutti gli effetti, senza vincoli di scadenza e utilizzabili, quindi, per finanziamenti sia di breve sia di medio-lungo periodo; le cambiali finanziarie sono, invece, titoli esecutivi, alla stregua degli assegni e delle cambiali tradizionali, utilizzabili solo per il breve periodo, con scadenze comprese tra uno e trentasei mesi. Possono emetterli società di capitali, anche in forma cooperativa, e mutue assicuratrici.

Per la verità, anche prima della riforma le imprese non quotate potevano emettere titoli di debito ma dovevano sottostare a una serie di vincoli e di limiti, imposti soprattutto in un’ottica anti-elusiva, che, di fatto, ne precludevano l’utilizzo. Con le misure adottate nel triennio 2012-2014, il legislatore ha allineato il trattamento fiscale e i vincoli amministrativi per le emissioni di imprese non quotate a quelli delle aziende quotate, sperando in tal modo di incoraggiare un ricorso crescente ai canali di finanziamento alternativi a quello bancario.

Quali sono stati, dunque, i provvedimenti alla base della riforma?

Innanzitutto, il superamento del limite di emissione il cui ammontare, in base al codice civile, non deve sopravanzare il doppio della somma del capitale sociale, della riserva legale e di quelle disponibili. E’ chiaro che, stante la diffusa sottocapitalizzazione delle nostre PMI, un simile vincolo rendeva di fatto inutilizzabili questi strumenti, se non per far fronte a fabbisogni finanziari di modesta entità. In base alle nuove disposizioni, questo vincolo può essere superato se i titoli sono collocati presso investitori professionali o trattati su mercati dedicati.

In secondo luogo, sono stati mitigati gli oneri fiscali in capo all’azienda emittente. In precedenza, una società non quotata che avesse emesso titoli di debito poteva dedurre gli interessi passivi fino al doppio del tasso ufficiale di riferimento stabilito dalla BCE. Anche in questo caso, considerando i livelli del tasso ufficiale, il beneficio era pressoché nullo. Con la riforma, gli interessi passivi sui titoli possono essere dedotti secondo i criteri previsti per i finanziamenti bancari. Inoltre, le aziende emittenti ora possono dedurre anche le spese di emissione nell’esercizio in cui sono sostenute, indipendentemente dal criterio di imputazione a bilancio.

Dal lato investitori, la riforma ha esentato dal versamento immediato (sostanzialmente alla fonte) dell’imposta sostitutiva del 26% sugli interessi percepiti i cosiddetti “lordisti” italiani e gli investitori esteri, in modo da facilitare il collocamento dei titoli e incentivare la liquidità del mercato.

Da ultimo, è stata introdotta la possibilità, per la società che faccia ricorso a garanzie sull’emissione, di optare per una imposta a forfait pari allo 0,25% del finanziamento, che va a sostituire le diverse imposte di bollo, registro, catasto ecc applicate sugli atti inerenti la garanzia.

Borsa Italiana ha, inoltre, predisposto un apposito (e poco costoso) segmento di mercato, ExtraMOT Pro, dove gli investitori professionali possono scambiarsi i titoli in portafoglio e dove, da fine ottobre, le imprese emittenti possono distribuire direttamente i titoli già nella prima fase di collocamento.

Sembrerebbero, dunque, esserci tutti gli ingredienti per garantire il successo di questi strumenti e per favorire lo sviluppo di questo mercato complementare a quello bancario, soprattutto in una fase, come l’attuale, caratterizzata da gravi difficoltà di accesso al credito per le PMI. Eppure…. Il mercato cresce ma non alla velocità e con le dimensioni che ci si sarebbe potuti attendere al momento della riforma. Sono circa 200 i titoli emessi nel corso di questi 4 anni, per un valore complessivo che non raggiunge ancora i 10 miliardi di euro, in larga parte riconducibile ad alcune grandi emissioni (i cosiddetti maxi-bond) realizzate nei primi mesi di operatività del mercato. E’ vero che un discreto numero di medie e di piccole aziende si sono avvicinate allo strumento ma siamo lontani dai potenziali 30.000 emittenti stimati da molti studi di mercato degli anni scorsi.

Cosa è successo?

Una prima risposta, semplice ma anche molto semplicistica, riconduce il problema a una questione culturale: gli imprenditori sono abituati al rapporto diretto con la banca, non amano un’eccessiva trasparenza verso il mercato e sono diffidenti ad aprire le porte dell’azienda a estranei, siano essi advisor, sponsor, investitori o analisti finanziari. C’è senz’altro un fondo di verità in questo ma bisogna anche affermare che, soprattutto in questi anni di crisi e soprattutto tra gli imprenditori più giovani o più “attenti”, sta crescendo una sempre maggior consapevolezza dei limiti e dei pericoli legati alla dipendenza da un unico “fornitore” di capitali e dei vantaggi che, invece, una politica di trasparenza e di apertura al mercato può offrire alle aziende, anche nei rapporti con le banche.

Una seconda risposta fa riferimento al costo: i tassi sarebbero troppo alti mentre quelli bancari sono praticamente azzerati. Anche in questo caso bisogna fare dei distinguo: se nel 2013 era facile registrare tassi che si aggiravano intorno all’8%, ora e soprattutto nel breve periodo, assistiamo a emissioni con tassi anche inferiori al 4% che, se confrontati con il costo complessivo di un finanziamento bancario (quindi non solo il tasso nominale ma anche commissioni, spese trimestrali, ecc), sono senz’altro concorrenziali. Senza dimenticare che i tassi bancari “praticamente azzerati” rientrano in molti casi in una sorta di leggenda metropolitana, dal momento che i cordoni del credito si sono allentati molto, grazie anche alla BCE, per le aziende di alto standing (quelle che potremmo definire in zona champions league) mentre non lo sono affatto per le aziende di minori dimensioni o che hanno qualche crepa nel bilancio (per continuare nella metafora, quante stanno a metà classifica o lottano per non retrocedere).

La terza risposta è che i minibond (e le cambiali finanziarie) sono “complicati”. E’ vero che la prima emissione comporta una serie di passaggi obbligati e di incombenze a cui l’imprenditore probabilmente non è abituato. E’, però, altrettanto vero che essa rappresenta anche un percorso “formativo” utile per prendere coscienza dei vari aspetti che caratterizzano una gestione finanziaria efficiente e che, sempre più, vengono valutati anche nei rapporti con la banca. Senza contare che, nel caso di emissioni a breve termine e  replicabili più volte nel tempo per soddisfare semplici fabbisogni di capitale circolante o di anticipi fatture, tutte le incombenze della “prima volta” non si presentano più  e il processo di emissione diventa del tutto standardizzato.

Quale può essere allora la spiegazione di questa crescita lenta? Probabilmente la risposta è trasversale e ingloba anche tutte quelle che abbiamo elencato finora: si chiama comunicazione. Vi è un notevole gap di comunicazione che conduce a un apparente paradosso: molti imprenditori hanno sentito parlare di minibond e cambiali finanziarie ma pochi, molto pochi, sanno davvero come funzionano. Spesso l’imprenditore si trova di fronte a una massa di informazioni parziali, lacunose, sovente imprecise, talvolta fuorvianti che concorrono a creare un alone di mistero e di diffidenza intorno a questo mercato.

Colpa del legislatore o degli enti territoriali preposti che non sanno dare le informazioni? Colpa degli imprenditori che non le recepiscono? Forse più che di colpe si deve parlare di problema e il problema, probabilmente, risiede nei modi e nei canali che vengono utilizzati per raggiungere le imprese. In questo senso, il ruolo dei commercialisti, dei consulenti d’azienda, delle associazioni e degli stessi confidi è di fondamentale importanza per far arrivare l’informazione e rendere efficace la comunicazione. Sono questi i soggetti che “parlano” con gli imprenditori e a cui gli imprenditori si rivolgono per capire e per avere consigli.  Se questo “livello di prossimità” è impermeabile, per i motivi più  diversi, al messaggio è probabile che il messaggio non arrivi o che arrivi distorto agli imprenditori.

Facebook
Twitter
LinkedIn
Pinterest
Reddit
Tumblr
Telegram
WhatsApp
Print
Email

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

ALTRI ARTICOLI