Privatizzazione Poste, ricominciamo da tre

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Poste italiane è una delle aziende più importanti del nostro paese: 143mila dipendenti e una rilevanza sociale pari a quella delle caserme dei Carabinieri e delle Parrocchie. Va gestita con profitto, ma anche con intelligenza sociale. Il mercato tradizionale postale è in forte decrescita. I conti della società sono sostenuti dai profitti fatti nelle altre attività dove Poste è entrata negli ultimi quindici anni. Si è fatta banca, assicuratore, operatore di telefonia mobile. Tutte attività molto redditizie.
Francesco Caio, ora al vertice di Poste non sembra credere alla privatizzazione annunciata dal governo e impostata dal suo predecessore, ma ha la pressione ad ottemperare ai circa 4 miliardi previsti, e già messi in conto dallo Stato italiano come introito della privatizzazione.
Ma l’operazione così come impostata rischia di essere dannosa e non percorribile. È incentrata sulla privatizzazione dell’intera azienda. Modello difficile che potrebbe non superare la severa analisi che i mercati finanziari attuano in caso di una quotazione in Borsa. Il perché è presto detto: ci sono ambiti dentro l’attività, e il bilancio di Poste italiane, troppo ambigui per poter essere spiegati a mercati che, invece, si aspettano certezze. È il caso soprattutto del Contratto di servizio tra il ministero dello Sviluppo economico e Poste per la gestione del sevizio universale. Ossia portare la posta su tutto il territorio. Attività che, essendo gestita anche in aree non remunerative, perché remote, impone allo Stato di rifondere i costi impropri sopportati da Poste per garantire il servizio.
Il meccanismo che lo regola è in alto mare. Scaduto nel 2011, alla ricerca di un proroga con il concorso di Bruxelles, di dubbia solidità giuridica. Il tutto gestito in un groviglio di competenze inestricabili dovute a una legge confusa. Poste, inoltre, si è sempre vista rifondare solo la metà dei costi denunciati per gestire il servizio universale. Perché? Una risposta logica non c’è a una domanda che qualunque analista farebbe in un roadshow per la privatizzazione. In più i costi sono ancora in fase di certificazione da parte del regolatore. Un rischio troppo grande.
Dunque, cosa fare? Ci sarebbe un’altra soluzione: privatizzare i tre gioielli di Poste, BancoPosta, Poste vita e Poste mobile. Le stime in vista della quotazione parlavano di una valorizzazione dell’intera società di 12/14 miliardi di euro. Con la collocazione prevista del 30/40% l’incasso per lo Stato era appunto di circa 4 miliardi.
Valutate le tre società secondo multipli prudenti di settore, la quotazione del 30/40% di ciascuna potrebbe portare complessivamente nelle casse dello Stato almeno 10 miliardi. E per alcune di esse si potrebbe procedere ad una operazione di vendita per quote anche maggiori. In ogni caso alla holding postale potrebbe rimanere una quota significativa o di maggioranza che garantirebbe i flussi di cassa necessari a una transizione morbida verso la razionalizzazione della parte postale e risorse per la crescita internazionale.
Sarebbe garantita una maggiore trasparenza su tutte le attività del gruppo e delle sue partecipate. BancoPosta e l’intero mercato bancario ne trarrebbero beneficio. Non si perderebbero le sinergie e utilità anche sociali nel mantenere tale conglomerato: ci sarebbe solo una maggiore efficienza, trasparenza e più introiti per le casse dello Stato. Varrebbe dunque la pena avere qualche mese in più per gestire al meglio una privatizzazione di tale portata.

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