Rimesse al fallito, banca salva

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La qualità della banca di operatore economico qualificato è fatto che, da solo, non può provare la conoscenza dello stato di insolvenza, ma che vale, piuttosto, a fondare il convincimento della particolare capacità dell’istituto di credito di cogliere tempestivamente i segnali di crisi del proprio cliente.

La consapevolezza della banca su tali segnali, tuttavia, dev’essere provata dai creditori, pena l’inammissibilità delle domande di revoca delle rimesse in conto corrente nel periodo sospetto anteriore al fallimento.

Lo ha stabilito la sesta sezione civile della Corte di cassazione con la sentenza n. 25952, depositata il 19 novembre 2013.

Nel caso concreto il liquidatore ha chiesto al giudice di revocare di alcune rimesse in conto corrente effettuate dal fallito in favore del proprio istituto di credito in epoca antecedente al dichiarazione di fallimento. Stando alla tesi attorea, la banca sarebbe stata a conoscenza dello stato di grave insolvenza dell’imprenditore, e grazie alla sua professionalità di operatore economico finanziario, si sarebbe avvantaggiata a dispetto degli altri creditori.

Il tribunale ha accolto la domanda, di conseguenza dichiarando inefficaci le rimesse in conto corrente e condannando la banca alla restituzione delle somme incamerate in mala fede. La decisione di primo grado è stata, peraltro, confermata dalla corte d’appello, cui si è rivolto l’istituto di credito per ottenere una riforma della decisione del tribunale. Anche per i giudici di secondo grado, infatti, la banca era nella piena condizione di conoscere la situazione finanziaria dell’imprenditore dichiarato fallito grazie «agli efficaci sistemi di controllo (come ad es. la Centrale Rischi) di cui, a differenza di altre categorie di creditori, dispongono gli istituti di credito e che consentono loro di conoscere in tempo reale l’esistenza di posizioni di sofferenza dei clienti cui vengono concesse aperture di credito».

La lite è stata portata all’attenzione dei giudici di legittimità: la banca ricorrente ha insistito nel ribadire la propria buona fede, rimarcando al contempo gli errori nei quali si sarebbe imbattuta la corte territoriale nel confermare la revoca delle rimesse. La banca ha sottolineato l’assenza di prova quanto alla sua conoscenza circa lo stato di decozione finanziaria del fallito, in particolare contestando il ragionamento presuntivo svolto dalla corte territoriale secondo cui detta conoscenza poteva agevolmente trarsi dalle segnalazioni della centrale rischi, delle quali però mancava la dimostrazione.

La Corte di cassazione, nell’apprezzare le argomentazioni difensive dell’istituto di credito, ha deciso per l’accoglimento del ricorso, così annullando la sentenza impugnata con rinvio per una nuova valutazione della vicenda.

La decisione degli ermellini si fonda sul ragionamento per cui la qualità di operatore economico qualificato che vanta la banca è fatto che, da solo, non è in grado di provare la conoscenza dello stato di insolvenza; l’esperienza dell’istituto di credito – hanno affermato i giudici del Palazzaccio – può semmai fondare il convincimento della «particolare capacità dell’istituto di credito di cogliere tempestivamente i segnali della crisi economica e finanziaria del proprio cliente».

L’onere della prova riguardo alla consapevolezza della banca dei segnali di rischio, tuttavia, grava sui creditori, e non può dirsi assolto, in via ipotetica, «dalla supposta acquisizione da parte della banca di altrettanto ipotetiche segnalazioni di grave sofferenza del cliente, provenienti dalla centrale rischi».

Particolare attenzione merita l’affermazione finale secondo cui nemmeno il costante stato di scoperto del conto corrente varrebbe, di per sé, a provare la mala fede della banca: si tratta, infatti, di «circostanza equivoca» che ben potrebbe essere indicativa della fiducia riposta dall’ente nelle capacità economiche del cliente, e che, in ogni caso, rappresenta un elemento del tutto fisiologico nell’ambito dell’attività di impresa.

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