In realtà Facebook e compagni sono un vero terreno minato, e su questo terreno commettere un passo falso è molto più facile di quanto si possa pensare, con la conseguenze di perdere interesse e appeal agli occhi dei follower. Generando quell’effetto “fastidio” che fa fuggire gli utenti dal proprio profilo, e compromette l’apertura di fiducia verso il brand (il termine inglese, annoying , rende perfettamente l’idea della sensazione che ognuno di noi prova da utente social, quando si imbatte in un post che gli fa storcere il naso …).
A misurare quanto e come l’attività social delle aziende è a “rischio noia” sono stati i ricercatori della società di analisi e consulenza Sprout Social , che hanno preso come campione 257 mila profili attivi di utenti che sui principali social network – Facebook, Twitter, Instagram –
seguono uno o più brand.
Un’analisi che parte da un dato estremamente positivo, che conferma la necessità imprescindibile per un’azienda di essere presente con intelligenza (e con i giusti investimenti) sui canali social: non più uno sfizio da delegare allo stagista di turno, ma una vera e propria branch che deve essere perfettamente incardinata nei processi aziendali, tra la comunicazione e il marketing . Perché la sua potenzialità è esplosiva. Il 75,3% degli utenti conferma di aver acquistato un bene o un servizio di cui sono venuti a conoscenza attraverso un social media. E il 57% è più propenso ad acquistare prodotti/servizi di un brand di cui è anche follower su un social. Il dialogo attraverso i canali, insomma, è già uno strumento forte di fidelizzazione prima ancora che l’utente si orienti su un prodotto o entri in un negozio (fisico o virtuale).
In media, l’acquisto viene effettuato dopo che il messaggio che comunica quel determinato prodotto/servizio è stato visto tra le 2 e le 4 volte dall’utente. Il processo di acquisto che scaturisce dai social, insomma, non è mai un acquisto d’impulso, ma è frutto di una scelta meditata e ponderata. Questo aspetto è fondamentale nel tarare il tono di voce del messaggio: quando si comunica attraverso i social non si deve fare appello alla “pancia”, ma bisogna mirare alla testa dell’utente. Regola che smentisce quel che verrebbe naturale pensare, e che abbiamo ogni giorno sotto gli occhi nella nostra esperienza social: il fatto che le bacheche di Facebook e Twitter siano dei grandi sfogatoi dove ciascuno posta e risponde senza eccessiva riflessione. Quando a comunicare è un brand, cambia il tipo di atteggiamento, e di reazione.
Il 73% degli intervistati mette il proprio like a un brand su un canale social in maniera istintiva, perché interessato a un prodotto o a un servizio. È questo il primo punto di contatto. Stabilita questa relazione, il “ritorno” sul profilo diventa abitudinario, e la spinta a tornare sulla pagina è data principalmente dalla ricerca di promozioni (58%). Ma usare la pagina Facebook come bacheca dei saldi può essere controproducente: l’eccesso di messaggi promozionali è anche causa di fastidio e di allontanamento dal profilo per il 46% degli utenti.
È questa la prima causa di quello che nella ricerca viene indicato come “fattore fastidio”, ovvero quel punto di non ritorno – fatto di “tono di voce”, di coerenza del messaggio, di insistenza – che spinge un utente a smettere di seguire un brand sui canali social. Un aspetto che, secondo i ricercatori, viene scarsamente analizzato dai social media manager delle aziende, troppo concentrati sul «quel che vogliono dire» anziché considerare «quel che i loro follower vogliono sentirsi dire». Il problema, insomma, è che «molti brand applicano strategie social non correlate alle attese dei loro utenti».
A infastidire maggiormente gli utenti è la pubblicazione seriale di promozioni (46%), quindi una critica che si rivolge al tipo di contenuto. Interessante notare, però, che la parte maggiore del fastidio è generata da errori e fraintendimenti legati al cosiddetto «tono di voce» , ovvero al tipo di linguaggio utilizzato, a prescindere da quale sia il contenuto nello specifico. Il 30% mal sopporta l’utilizzo di slang e forme gergali , seguono la “mancanza di personalità” del messaggio e il tentativo di essere divertenti a tutti i costi (e, presumibilmente, con scarsi risultati…). Infine, un dato molto interessante, che rende bene l’idea di quel che gli utenti più si aspettano da un brand che sia davvero social: 1 su 4 si indispettisce per la mancata interazione.
I follower vogliono insomma che il social sia gestito come canale di dialogo , non come strumento di comunicazione aziendale “da uno a molti”, senza risposte, dialogo, interazione. Una conferma statistica di una grande verità, e purtroppo di un approccio sbagliato al canale social: «le aziende, se vogliono stare con successo sui social, devono rendersi conto che l’epoca di Mad Man (scrivono i ricercatori, facendo riferimento al titolo della famosa serie sui pubblicitari americani degli anni ’50) è finita da un pezzo. Il tuo profilo Facebook o Twitter non è un cartellone pubblicitario dove incollare il tuo spot».
Quella di costruire la giusta strategia social è una strada tutta in salita in particolare per le banche, che sono seconde (indicate dall’11,3% degli utenti) solo ai siti governativi (12,8%) nella top ten dei comparti “most annoying”.
«Molti social media manager presumono di sapere che cosa vogliono i loro follower. Ma spesso sbagliano. E così, sbagliano il tono di voce con cui si rivolgono alla propria audience», dicono i ricercatori.
La morale? Gestire la comunicazione social di un brand è un lavoro serio, più da analista che da simpatico copy con la battuta pronta o da uomo marketing che ha come obiettivo la vendita costi quel che costi. «Anziché bombardare i tuoi follower con immagini prese da archivi stock e con messaggi forzati, fai il tuo lavoro: identifica i valori del tuo brand, raccogli i dati sui tuoi follower, identifica la tua audience e il tuo target, allinea i tuoi contenuti alla tua audience. Stabilisci le linee guida della tua presenza sul canale, e fai in modo che attraverso la tua comunicazione passi la personalità del tuo brand ».