Anche le Pmi fanno innovazione
Chi sono le pmi innovative?

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È una presa di posizione volutamente provocatoria, del resto arriva dal presidente della Fondazione Mind the Bridge nonché responsabile della Startup Europe Partnership. Ma Alberto Onetti fa discutere quando afferma che mentre “si è creato un ecosistema, si sono sviluppati servizi e anche incentivi legislativi e fiscali per le startup”, dall’altro lato “ci siamo dimenticati che esiste anche il resto del mondo, rappresentato da un universo di piccole e medie imprese che è centrale per l’Italia e per l’Europa. E anche qui si fa innovazione”.

Sia chiaro, precisa Onetti, l’attenzione verso le startup “è cosa buona è giusta”. Ad essere sbagliato, piuttosto, è un approccio che porta “a guardare il mondo per categorie, per cui le startup sono interessanti mentre le Pmi sanno di vecchio. Ma ragionando per compartimenti stagni finisce che gli incentivi vanno solo verso le prime”. Insomma, “dobbiamo cominciare ad andare al di là delle distinzioni e tornare ai basics: i soggetti che producono innovazione generando reddito ed occupazione, chiunque siano,devono essere messi in condizione di crescere il più possibile”.

L’idea di fondo è che “startup e Pmi siano due gemelli separati alla nascita e che frequentano mondi diversi, uno spinto verso il modello anglosassone che passa da investitori con capitali di rischio e che contempla un’exit, che punta prima a conquistare il mercato e poi il fatturato, l’altro che fa un passo alla volta, prima fattura e poi investe e si finanzia attraverso le banche”. Il punto è che l’innovazione, ne è convinto Onetti, sta da entrambi i lati dello steccato. E il suo invito è quello di superarlo, questo steccato. “La domanda vera”, prosegue, “è questa: un mondo non può essere interessante per l’altro e viceversa?”. Tanto più che “mi capita spesso di incontrare Pmi innovative che si pongono gli stessi problemi delle startup”.

A guardare dall’altro lato dello steccato è anche l’Unione Europea attraverso Easme, agenzia europea per le Pmi. “Con Smei, nell’ambito del programma Horizon2020, hanno finanziato quasi 3mila aziende, tra le quali ci sono casi estremamente interessanti ed innovativi”, spiega Onetti. Che sta iniziando a guardarli anche con gli occhi del responsabile di Sep. In Italia i dati parlando di finanziamenti per oltre 60 milioni di euro arrivati nelle prime due fasi del programma, con poco meno di 250 imprese che ne hanno beneficiato. Ma non ci sono soltanto i fondi UE: “nel nostro Paese un buon caso di azienda fuori dai canoni è quello di FaciltyLiveche ha raccolto oltre 20 milioni di euro da capitali privati”.

 

Ma le Pmi sono in grado di fare il percorso inverso? Di guardare cioè al mercato del venture capital e prendere in considerazione l’idea di un’exit? A sentire Giorgio Merletti, presidente di Confartigianato Imprese, assolutamente sì. “Quanto sostiene Onetti non è utopia”, spiega a Wired, “oggi come oggi i giovani che entrano in azienda lo fanno con una cultura diversa: maneggiare gli scanner cut, le stampanti 3D, approciare l’e-commerce sono tutte attività che svolgono con ragionevole semplicità”. Però qui si parla di dipendenti.

Ma, ribatte Merletti, oggi uno dei temi principali che stanno affrontando le Pmi è quello della “trasmissione di impresa, che storicamente è avvenuto all’interno della famiglia, ma che sempre più spesso avviene anche all’esterno, coinvolgendo un dipendente piuttosto che giovani che, vista la carenza di posti di lavoro, investono su loro stessi”. E poi ci sono i numeri, che verranno presentati questo fine settimana a Courmayeur durante l’assemblea dei giovani di Confartigianato. “Il nostro centro studi afferma che, a fronte di poco più di 5mila startup innovative nate dal 2012 ad oggi, nei soli ultimi due anni sono nate oltre 23mila imprese con propensione all’innovazione. E molte di queste sono realtà artigiane”.

Da parte degli artigiani, quindi, l’interesse c’è. E i venture capital? “Secondo me Onetti ha individuato uno spazio di opportunità molto importante in Europa”, afferma Gianluca Dettori, presidente di dPixel, “alla fine tutte le grandi aziende, un giorno, sono state Pmi”. Tanto più che di piccole e medie imprese “siamo molto ricchi in Italia, abbiamo realtà molto specializzate, tecnologiche, leader mondiali nel loro settore”. Mercati solitamente appetibili per i fondi di private equity, “che però da noi non sono molti, specie in ambito tecnologico”.

Certo, aprirsi ai venture capital significa accettare che un esterno venga a comandare a casa propria, per dirlo in maniera brutale. Ma, suggerisce Dettori, non succede la stessa cosa quando ci si quota in borsa? Eppure, “spesso i piccoli e medi imprenditori si oppongono a questa eventualità”, rinunciando così a fondi che potrebbero permettere di scalare il mercato. Come si risolve il problema? “Serve un cambiamento culturale. Rispetto al quale è già positivo che ci sia una generazione di startupper che immaginano l’azienda come un oggetto che possono costruire e dal quale possono distaccarsi. Questa generazione porta con sé questo bagaglio culturale, la trasformazione è già in atto”.

Chi invece di tutto questo non vuole nemmeno sentire parlare è Marco Bicocchi Pichi, presidente di Italia Startup. “Secondo me questo ragionamento contribuisce a fare confusione”, spiega a Wired, “si tratta di realtà con ruoli diversi, che non dobbiamo assimilare”. La piccola impresa “ha un valore sociale, ma non economico in una competizione globale. È un errore metterla sullo stesso piano di una startup”. Una difesa d’ufficio dell’ecosistema? Più che altro il tentativo di evitare “la notte in cui tutte le vacche sono nere”.

Anche perchè nelle parole di Bicocchi Pichi non c’è solo zucchero per le startup. “Se vogliamo dire che tra le tante iscritte al registro delle imprese innovative molte sono in realtà delle microimprese, questo è un terreno sul quale confrontarsi”. Senza dimenticare la recente indagine Instilla, secondo la quale due startup su tre non hanno nemmeno un sito Internet, uno dei requisiti per l’iscrizione al registro. “È una legge bianca e quindi non succede nulla. Ma sono mesi che chiedo al Mise se non vogliamo dare almeno un cartellino giallo a queste realtà”.

Insomma, il presidente di Italia Startup chiede di definire meglio i confini delle startup, piuttosto che aprirli verso i “gemelli delle Pmi” dei quali parla Onetti. “Questo tentativo di fare una marmellata è negativo: distinguiamo tra le startup che sono alla ricerca di un modello scalabile e di una crescita significative e le microimprese che svolgono un ruolo anche sociale”. L’unica concessione è il riconoscimento che, anche tra queste ultime, ci possano essere dei “campioni nascosti” dell’innovazione.

Una distinzione che deve valere anche quando si parla di capitali. “Il modello del debito”, seguito dalle Pmi attraverso le banche, “non è quello da perseguire”. Gli stessi istituti di credito, per primi, non sarebbero interessati a investimenti con tempi medio-lunghi. La sfida, semmai, è quella di “portare il capitale privato verso l’impresa: c’è una massa di mille miliardi rappresentata dai risparmi di quelle famiglie che hanno almeno 500mila euro di liquidità. Se andassero a finanziare le imprese sarebbero un grosso aiuto allo sviluppo”. Più che guardare da che parte dello steccato stia l’innovazione, secondo Bicocchi Pichi il nodo è quello di “capire come possa agire lo Stato per far sì che i privati investano nelle aziende”. A prescindere dal fatto che siano startup o Pmi.

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