Back-reshoring, l’Italia è al top

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Dopo la grande fuga le aziende fanno dietrofront. E’ back-shoring ?  Produrre all’estero non conviene più:la nuova sfida è la qualità «made in Italy» e l’dustry 4.0

Primato italiano per il back-shoring. Secondo “Uni-CLUB Back-Reshoring”, il gruppo di ricerca interuniversitario italiano che si occupa di studiare la dinamica dei ritorni manifatturieri in patria, siamo di fronte all’ abbandono di un modello di sviluppo. D’ora in poi non più inseguimento di vantaggi di costo ma riposizionamento verso mercati di fascia medio-alta che valorizzino le competenze italiane.

ALCUNI DATI

I dati di Uni-CLUB Back-Reshoring”, indicano che l’Italia eccellerebbe in Europa per back-restoring. Nel nostro Paese si sono verificati infatti circa il 60% dei casi censiti in Europa dal 2007 al 2012.

LE MOTIVAZIONI DEGLI IMPRENDITORI

Dall’indagine condotta dal gruppo di ricerca Uni-CLUB tra gli imprenditori risulterebbero fondamentalmente le seguenti motivazioni:

42% : immagine made in Italy 

24% : scarso livello di qualità della produzione off-shored

21% : importanza costumar care

18% : pressione sociale 

16% : competenze più elevate e complete nel Paese d’origine

13% : miglioramento condizioni produttive riduzione differenze del costo del lavoro

11% : ottimizzazione costi logistici 

RIPERCUSSIONI SOCIALI E INDUSTRIALI

In altre parole il ritorno della produzione in patria porterebbe ad una molteplicità di vantaggi di tipo diverso. Dal punti di vista economico-sociale si verrebbero a ricreare posti di lavoro, rafforzando il nostro sistema industriale. Benefici indotti deriverebbero anche per la nostra economia con la riduzione delle importazioni e l’ incrementando delle esportazioni. La produzione industriale vedrebbe anzitutto il miglioramento qualitativo dei prodotti finiti. Di non minore importanza è la conservazione del know how e lo sviluppo politiche industriali quali il just-in-time, l’ ottimizzazione dei costi logistici, la possibilità di comunicare una migliorare l’immagine aziendale.

Gli industriali sembrano credere che la nuova rivoluzione industriale fondata sull’innovazione e la tecnologia, combinata con la capacità artigianale e lo stile che contraddistingue i prodotti italiani, siano la formula giusta per il riposizionamento dell’industria manifatturiera.  Insomma alta qualità attuata a condizioni efficienti.

COSA E’ CAMBIATO

Dall’epoca, pur recente, dell’esodo della produzione all’estero da parte di molti marchi italiani il panorama è cambiato. Sono infatti aumenti i costi legati a manodopera, trasporti, logistica, qualità produttiva. L’export dall’Europa è agevolato da un cambio euro/dollaro più favorevole.

Ma sembra che il target di riferimento dei prodotti made in Italy, che ne apprezza la tradizioni di stile e cura dei dettagli, sia diventato più altolocato ed esigente.

Attirano i buyer internazionali: la cura artigianale del prodotto, attenzione al cliente, capacità di migliorare, creatività. Inoltre l’acquirente dimostra crescente attenzione al tema della sostenibilità sia economica, che ambientale e sociale.

RIMPATRIO PRODUTTIVO E INDUSTRY 4.0

L’occasione di svecchiamento del sistema paese è Industry 4.0, che incrocia manifattura classica e industria metalmeccanica con i servizi innovativi e tecnologici, ripensando i processi produttivi». Lo ha affermato Gianni Potti, presidente CNCT Confindustria Servizi Innnovativi e Tecnologici.

Luciano Fratocchi, Professore all’Università dell’Aquila e cofondatore dell’Uni-CLUB vede in  Industry 4.0 rappresenta una risposta alla delocalizzazione.

Due quindi i fattori fondamentali che collegano Industry 4.0 e rilocalizzazione: modernizzazione del processo produttivo, che consente anche di lavorare sui costi, e aumento del valore percepito dal cliente, attraverso la qualità del prodotto.

Un’occasione di rinnovamento da non perdere, non permettendo agli altri Paesi Europei di battere nel tempo l’Italia sulla produzione tecnologicamente avanzata.

LE CIFRE E LA GEOGRAFIA DEI RITORNI

Il Paese più colpito dagli abbandoni è la Cina, quasi il 60 % del totale. La causa si individua nella crescita degli stipendi, nella conflittualità sindacale, manodopera non specializzata. Il fenomeno riguarda quindi i comparti ad alta innovazione tecnologica, come l’elettronica o con investimenti finanziari impegnativi. L’inversione di rotta vale anche per settori tradizionali come la moda o l’abbigliamento, che richiedono manodopera specializzata.  Circa il 12 % delle imprese torna da India e altri Paesi del Sud-Est asiatico. I Rientri dall’Unione Europea rappresentano il 20 % e riguardano principalmente Russia e Paesi dell’Est, quali Repubblica Ceca, Slovacchia e Romania.

LE STIME DEL FENOMENO back-reshoring

Tuttavia è da notare che la rilevanza quantitativa del fenomeno non è molto elevata. Il movimento è stato stimato in circa 730 casi nel mondo. Le imprese interessate sarebbero 121 italiane, 326 americane, 68 nel Regno unito e 63 in Germania.

Ci sono imprese per altro che più che abbandonare i paesi emergenti riportano in patria singole parti del processo produttivo.

Diversi economisti ritengono infatti che non siamo di fronte ad un vero e proprio fenomeno di rilocalizzazione. Sono gli stessi che, in un mercato globale, giudicano anacronistico sperare, nella reindustrializzazione di un Paese attraverso il backshoring.  

Questi stessi esperti preferiscono spiegare il fenomeno della delocalizzazione come una internazionalizzazione della catena produttiva e delle forniture da parte di molte imprese.

Le imprese più competitive, insomma, inserite in catene globali di produzione hanno attinto alle migliori risorse che al momento il mercato offriva.

 

http://www.reshorenow.org

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