Banche, matrimoni Popolari troppo piccole, troppo coop non possono più correre da sole

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Il fischio di inizio è venuto da due pezzi da novanta del settore, Victor Massiah e Pierfrancesco Saviotti, al congresso sindacale Uilca. Il primo ha ricordato apertamente che il mercato guarda ad Ubi come a un soggetto aggregatore e ‘avendo sempre detto che Ubi è tra le banche più solide, sarebbe contraddittorio se mi trovassi in disaccordo con questo giudizio’. Il numero uno del Banco Popolare ha fatto un passo in più e lanciato un ballon d’essai. Saviotti infatti ha parlato del “sogno” di fidanzarsi con la Bpm, anche se poi ha aggiunto: “Onestamente, non vedo una possibilità di questo genere” Almeno per ora, probabilmente. Segnali importanti, di un risiko tra banche popolari che evidentemente si è messo in moto. E se fino al completamento degli esami della Bce – a fine ottobre – nessuno oserà muoversi, tra gli operatori qualche ragionamento su cosa potrebbe succedere dopo comincia ad affacciarsi. Partendo probabilmente dall’ipotesi più ambiziosa, quella di costituire un terzo polo bancario nazionale forte intorno al mondo delle popolari, alle spalle di Intesa e Unicredit. Ma contemplando anche soluzioni intermedie, più soft ma probabilmente più praticabili. Nel primo caso i piani di aggregazione non possono che ruotare intorno a Ubi – la più efficiente del settore – a un’incollatura in termini di dimensioni dal Banco Popolare. Il quadrilatero ideale delle grandi banche cooperative continua poi passando per Bper (circa la metà delle prime.

due in termini di attivi e prestiti alla clientela) per finire con Bpm, la più ridotta per volumi (con un totale attivo di meno di 50 miliardi rispetto ai 123 di Ubi e ai 60 di Bper) ma di gran lunga la più ambita. Né potrebbe essere altrimenti, visto che opera quasi esclusivamente in Lombardia, una delle regioni a più alto reddito dell’Eurozona. Nemmeno tutte e quattro insieme costituirebbero un gigante (avrebbero 250 miliardi di impieghi alla clientela rispetto ai 332 di Intesa) però rappresenterebbero un polo di tutto rispetto. Quanto, nella realtà, probabilmente irrealizzabile. Per questo accanto alle astrazioni, circolano anche ipotesi ‘minori’. Che vedono prevalere nei processi di fusione un mix di debolezze e di convenienze, di affinità di struttura e, non da ultimo, di alchimie positive tra gli uomini al vertice. Non sarà un caso se il matrimonio più scontato – quello tra Ubi e Banco Popolare – ha più rivali di Renzo e Lucia, mentre potrebbe essere più praticabile un sodalizio tra Banco e Bpm (magari con lo ‘zampino’ della Carige). Il primo fattore da tener presente, attualmente, è il convitato di pietra al gran risiko delle Popolari, cioè la Bce. La Banca Centrale Europea sta per emettere i ‘verdetti’ sugli istituti di credito dell’eurozona di maggiori dimensioni e, per quanto riguarda l’Italia, le Popolari abbondano (Veneto Banca, Popolare di Vicenza, Bpm, Bper, Banco Popolare e Ubi). E fino a quando non sarà compiuta la grande revisione, non si muoverà nulla. Il doppio esercizio di valutazione degli istituti di credito – Aqr e Stress test – non è certo meno impegnativo per le banche ‘tradizionali’, ma per le Popolari potrebbe rappresentare la spinta indispensabile al processo di aggregazione. Il primo punto da cui partire è quanto faranno male questi esami, quanto la Bce userà la mano pesante nelle valutazioni: essere troppo severi, spingendo le banche a nuove ricapitalizzazioni o comunque a comprimere ancora il credito per rispettare i parametri di capitale avrebbe infatti un effetto contrario al ciclo espansivo che la stessa Bce intende innescare con le aste di rifinanziamento mirate (le Tltro) e le altre misure per far crescere la liquidità del sistema. E poi dipende da ‘come’ verranno passati gli esami: si può essere promossi, ma passare la prova con il minimo dei voti; insomma, trovarsi in una condizione di debolezza che necessariamente spingerebbe ad aggregazioni. Perché, è il concetto di fondo, nessuno si muoverà spontaneamente; e nessuno farà una mossa di aggregazione tra pari (per le stesse intuibili ragioni di opportunità e di potere). «Dopo questa tornata di esami e con l’ingresso sotto la vigilanza della Bce, sono convinto che ci saranno opportunità/necessità di aggregazioni – dichiara Pierfrancesco Saviotti, numero uno del Banco Popolare – ovviamente, dovranno essere aggregazioni che diano benefici», spiega parlando in generale del mondo-Popolari. Che questa volta sia quella giusta? A suo tempo la foresta pietrificata delle casse di risparmio fu scossa dalle fondamenta da una modifica legislativa, scritta da Giuliano Amato, che rese possibile l’impossibile. Sarà un caso, ma anche in questo caso si parla di una modifica della legge sulle Popolari (vedi intervista in pagina). E ancora: il Fondo monetario è tornato recentemente a parlare della necessità, per le banche Popolari di dimensioni nazionali, di abbandonare la forma cooperativa; insomma, tanti fattori convergono sulla necessità di un cambiamento, anche se non è chiara la direzione. Da questa fase ancora magmatica potrebbero nascere forme di aggregazione ibride e sul mercato qualcuno comincia ad interrogarsi anche su matrimoni ‘misti’: ad esempio, tra la Carige – che stress test a parte, una gran forma non ce l’ha e un azionariato stabile nemmeno, visto che la Fondazione è destinata naturalmente a dimagrire oltre quello che ha già fatto – e la Bper. A favore della Popolare modenese gioca la quasi contiguità geografica ma per il momento non risultano dossier aperti. Anzi, a dire il vero in questa fase di ipotesi reali non ce ne sono proprio: qualsiasi disegno concreto è necessariamente rimandato al dopo- esiti Bce. Però, certo, Carige resta un’indiziata forte per qualsiasi matrimonio, e anche per un intervento di Andrea Bonomi, che tutti ritengono ancora molto interessato alla partita; magari, perché no, anche insieme a qualche banca. Dal canto suo, il numero uno di Bper Alessandro Vandelli qualche ambizione, guardandosi intorno a 360 gradi, sotto sotto ce l’ha: «Veniamo da una storia di aggregazioni amichevoli e riteniamo di continuare ad avere le caratteristiche di polo aggregante», spiega. Del resto la banca una gran parte di lavoro di pulizia dovrebbe averlo fatto: dopo il cambio di direzione e le tirate di orecchie di Bankitalia le coperture dei crediti in difficoltà sono passate – senza write off – dal 32 al 39%, ad esempio, contro il 27% del Banco Popolare e il 27,61 di Ubi, che viene considerato il campione nazionale tra le banche Popolari (nonostante l’ombra dell’indagine della Procura di Bergamo, sui vertici dell’istituto, ancora in corso). Qualcosa di più sul futuro di Bper si capirà con il piano industriale 2015-2017 (con possibile estensione di un anno) che potrebbe essere presentato insieme all’approvazione del bilancio. Non si può nemmeno escludere che qualche simpatia, nel caso della Bper, possa andare alle due banche valtellinesi (Creval e Sondrio). Ma alla Carige, in un’altra ottica, potrebbe guardare anche la Bpm. La banca milanese ha fatto un buon percorso di risanamento e, governance a parte, sta finendo di leccarsi le ferite e comincia a guardare al futuro con maggior fiducia. Resta la preda più ambita e lo stesso Saviotti non ne ha fatto mistero, aggiungendo però di sapere che non è sul mercato. E in effetti Bpm in questa fase è difesa proprio dalla sua governance ‘difficile’, in grado di scoraggiare molti potenziali pretendenti: la sua debolezza diventa la sua forza; in versione difensiva, ma pur sempre efficace sotto certi punti di vista. Per questo potrebbe essere ragionevole un matrimonio con Carige, magari ben visto anche dalla base della Bpm, perché, non essendo Carige una Popolare, non annacqua il peso dei soci-dipendenti di Bpm. Per il momento l’ad Giuseppe Castagna è concentrato sull’attualità. Non senza qualche ambizione prospettica: «In questi mesi abbiamo affrontato un’opera impegnativa – spiega – oggi siamo in una situazione invidiabile, con una liquidità fortissima. Vogliamo continuare su questa strada e poi se ci sarà un momento di aggregazione cercheremo di guardare e fare la nostra parte». E poi ci sono le due Popolari non quotate – ma non irrilevanti come dimensioni – cioè la Vicentina e Veneto Banca. Entrambe reduci da processi di rafforzamento del patrimonio non banali (grosso modo da un miliardo a testa, anche se con forme diverse) e su cui ora si attende il responso Bce. Ma per entrambe, a prescindere dalla solidità patrimoniale, c’è un problema di fondo: la loro ‘carta’ vale troppo. Il meccanismo di autoattribuirsi un valore, in occasione dell’assemblea annuale, porta infatti la Popolare di Vicenza ad avere una capitalizzazione pari a 5,2 miliardi e Veneto Banca ( post aumento) a 4,9 miliardi. Valori non lontani dalla capitalizzazione di Ubi (5,5 miliardi) che però ha un attivo tre volte più grande, ad esempio, di Veneto Banca. Nella foto, da sinistra a destra: Victor Massiah, amministratore delegato di Ubi Banca e Pier Francesco Saviotti, amministratore delegato del Banco Popolare.

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